Il proprio posto al sole sulla scena musicale internazionale l’Irlanda lo ha ormai conquistato più di tre decenni or sono, convogliando creatività e un millenario amore per la musica a formare una rete in grado di supportare e promuovere nomi che sono da tempo amati e seguiti in tutto il mondo, dagli U2 a Enya ai Cranberries, da Sinéad O’Connor ai Corrs, fianco a fianco coi nomi storici della scena traditional (Christy Moore, Chieftains), del songwriting più impegnato (Paul Brady, Andy White) e con i nuovi idoli delle teenager (Boyzone, Westlife). Ciò che più conta, l’Irlanda musicale continua a rigenerarsi continuamente, a custodire segreti che si svelano improvvisamente affascinanti e lontani da qualunque stereotipo in cui si possa anche solo osare ingabbiare uno spirito sempre vivo e vitale. I ritmi dei reels e dei gigs si sovrappongono ai beat della dance, le malinconiche arie dell’ovest si fondono in delicate proposte indie rock, Dublino pulsa al ritmo di tablas e tamburi africani, eppure tutto questo è pur sempre Irlanda. In un clima lontano dall’equazione che negli anni Settanta accostava il repertorio tradizionale a un clima di restaurazione culturale, nomi nuovi, dissetatisi alla scuola dei maestri di sempre (Donald Lunny, Matt Molloy, Sharon Shannon), mescolano fiddle e bodhran ad attitudini differenti, muovendo al ballo e alla commozione pubblici di razze e lingue lontanissime, e ottenendo plauso e attenzione da parte dei critici più preparati.
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Traditional Grooves
In Irlanda può ancora capitare che le fortune internazionali di un gruppo oggi sulla bocca di tutti come i Dervish inizino quasi per caso, durante una session in un pub di Sligo, data alle stampe con l’informale titolo The Boys Of Sligo; è stata la voglia di trasformare un ritrovo quasi casuale di pur validi musicisti in un progetto da coltivare e sviluppare che ha portato alla pubblicazione di Harmony Hill nel ’92, e l’ingresso in formazione della voce di Cathy Jordan, nata a Roscommon e di grande presenza scenica, ha coinciso con un percorso artistico che ha portato i Dervish ad aggiudicarsi nel ’96, col terzo lavoro At The End Of The Day, il premio di Hot Press come “trad/folk album of the year”, avendo la meglio su leggende viventi come Christy Moore e Donald Lunny. Composizioni arricchite dalla presenza di ben due fiddle sono divenute il tratto distintivo dei Dervish, celebrato dopo la pubblicazione di Mid Summers Night (1999) con la partecipazione a inizio 2001 al mastodontico festival Rock In Rio.
I dublinesi Kila hanno iniziato a esibirsi addirittura come buskers, utilizzando i propri nomi di battesimo: Rónán, Rossa, Eoin, Colm And Friends, e arrivando a una line up stabile a fine 1996; Rónán Ó’Snodaigh è anche un apprezzato poeta, che ha dato alle stampe già sette volumi. I Kila sono fra le migliori promesse della nuova ondata di Irish traditional bands, con tre lavori già alle spalle: Tóg é go bog é, Mind The Gap e Lemonade And Buns.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, nel Connecticut, continua la fervente attività della Green Linnet Records, che da un quarto di secolo porta avanti l’impegno di divulgare musica celtica di qualità, con un catalogo che conta ormai più di 300 titoli, e che accosta nomi storici come Fairport Convention, Altan e Martin Hayes a nuovi talenti come i galiziani Milladoiro. “La Green Linnet rappresenta per l’Irish Music ciò che la Sun Records è stata per il rock’n’roll”, sostiene il prestigioso New York Times, lodando il lavoro svolto dalla direttrice artistica Wendy Newton, che fondò l’etichetta nel ’76 dopo essere rimasta rapita dalla tradizione musicale irlandese durante una vacanza in County Clare.
Uno degli attuali fiori all’occhiello della Green Linnet sono i Lunasa, quintetto irlandese il cui debutto omonimo del ’97 ha ricevuto lodi da parte di testate attendibili come Folk Roots, ed ha raggiunto le vette della folk chart di Hot Press. L’approccio del gruppo nei confronti della musica tradizionale è tutt’altro che ortodosso, teso ad accentuarne gli aspetti ritmici tramite la sottolineatura delle linee di basso. “Cerchiamo di estrarre lo swing e l’energia dalla musica”, spiega il fondatore Sean Smyth, “utilizzando ritmiche nuove e utilizzando gli strumenti in modo stratificato.” Il risultato, benché devoto all’ispirazione fornita dalla Bothy Band, si spinge verso forme di improvvisazione vicine al jazz. Dopo un memorabile concerto al Matt Molloy’s, quale apprezzamento migliore della dichiarazione dello stesso flautista dei Chieftains, che ha suggerito: “Mi ricordano un gruppo con cui ho suonato io stesso”? Del resto il background dei Lunasa presenta credenziali non da poco: il bassista Trevor Hutchinson è stato prima nelle fila dei Waterboys, e ha poi fatto parte della sezione ritmica della Sharon Shannon Band, mentre il violinista Sean Smyth ha suonato coi Coolfin di Donald Lunny. The Merry Sisters Of Fate, del 2001, ha procurato ai Lunasa la definizione, coniata da Mojo, di “new gods of Irish music”.
Ma i veri maestri della contaminazione sono i musicisti dell’Afro Celt Sound System, la creatura del produttore Simon Emmerson accasata presso la Real World di Peter Gabriel, che da anni cerca di rintracciare e riallacciare le connessioni fra la cultura musicale celtica in senso lato e i ritmi africani, innestandovi le tendenze elettroniche più sperimentali. Il sound system comprende presenze eterogenee, fra cui lo stile vocale sean nos di Iarla O’Lionaird, le uillean pipes di Davy Spillane (un nome che non ha bisogno di presentazioni) e quelle di Ronan Browne, il whistle dell’ex Pogues James McNally, il kenyano Ayub Ogada, Kauwding Cissokho e Massamba Diop, entrambi del gruppo di Baaba Maal, e infine l’inglese Jo Bruce, che si occupa di tastiere e campionamenti, e ha ospitato nel ’99, in occasione della registrazione della title-track di Volume 2: Release, la voce di Sinéad O’Connor. Further In Time, il terzo album pubblicato nella tarda primavera del 2001, ha visto la partecipazione dello stesso Gabriel, assieme all’icona rock Robert Plant, e rappresenta una selezione fra oltre 50 brani, accumulati durante cinque anni di live in giro per il mondo, fra cui gli appuntamenti del Womad. La bilancia si è spostata verso un’ulteriore introduzione di elementi africani e dance, e la tracklist include il primo testo in inglese mai firmato da Iarla O’Lionaird, accanto a liriche sia in gaelico che in idiomi africani.
La voce di O’Lionaird è in sé un tratto inconfondibile; nato nel 1964 in una Gaeltacht in County Cork, Iarla è divenuto uno dei più apprezzati interpreti sean nos, ossia l’antico stile vocale nasale che si muove mestamente su scale musicali estranee alla tradizione colta occidentale, privo di accompagnamento strumentale, antico come le scogliere dell’ovest e tramandato da secoli di generazione in generazione. O’Lionaird ha perfezionato il proprio talento con gli studi, diventando a fine anni Ottanta ricercato sia come cantante che come insegnante, e finendo col presentare il ciclo televisivo The Pure Drop, dedicato dalla RTE (la televisione di Stato irlandese) alla musica tradizionale. Dopo una lunga lettera scritta a mano da O’Lionaird alla Real World è arrivata la partecipazione a una Recording Week organizzata presso gli studi, ed è proprio l’incontro imprevedibile fra lo sean nos e i ritmi della club culture di Emmerson a dare l’avvio ai sofisticati intrecci degli Afro Celt Sound System. Due i lavori solisti realizzati da Iarla: The Seven Steps To Mercy e I Could Read The Sky, colonna sonora del film omonimo: “Tutti tentano di addomesticare e rendere appetibile il materiale tradizionale”, rivela O’Lionaird, “io ho cercato un equilibrio fra il groove e le emozioni”.
Benché interessato all’asian underground e al trip-hop, l’artista è rimasto legato all’Irlanda gaelica: “La costa ovest irlandese non è un luogo ordinario. Onestamente penso di essere cresciuto in paradiso”.
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Irish Indiependence
Se qualche anno fa il rock irlandese poteva essere tacciato di aver prodotto quasi esclusivamente cloni degli U2, oggi quei tempi appaiono decisamente lontani, e le nuove band agiscono e interagiscono sfruttando la rete sempre più fitta e paritaria che collega la vasta scena indipendente internazionale. Sono maturati a Dublino i Joan Of Arse, già al terzo lavoro con Distant Hearts, registrato a Chicago sotto l’attenta supervisione di Steve Albini, lavoro intriso come i precedenti di malinconia, con le chitarre che evocano paesaggi solitari e melodie vocali che rivelano passioni sofferte; armonie complesse, un alternative country in senso lato che unisce la magia della campagna irlandese al songwriting di un Neil Young, ritmi inquietanti e inserimenti sorprendenti, come l’armonica e il coro di Things Asleep In The Sun, a cui si aggiungono le voci di Jason Molina e Dan Sullivan dei Songs:Ohia. La cura riversata nel lavoro non ha trascurato l’artwork, e la copertina è stata affidata a Zak Sally dei Low, che ha ben trasfigurato e raffigurato la valenza emozionale dei suoni.
Le attenzioni di Albini sono state riservate anche al più recente lavoro dei Frames, band attiva dai primi anni Novanta, ma che non ha mai raggiunto un successo corrispondente alle aspettative. For The Birds è accostabile ai lavori di Will Oldham e dEUS, e ha destato attenzione e apprezzamenti anche negli Stati Uniti.
Quello di David Kitt oggi è qualcosa di più di un nome da tener d’occhio; rivelatosi nel 2000 con il delicato e acustico Small Moments, stampato dalla Rough Trade, Kitt ha sfornato l’anno successivo The Big Romance, immergendo le tracce in radiose armonie vocali e tinteggiature elettroniche, utilizzando lo studio come uno strumento, e aggiungendo così ulteriore fascino a un talento compositivo non comune. Non a caso gli estimatori di The Big Romance si sono rivelati ben più numerosi dei seguaci dell’indie rock, affollando i concerti di quella che può essere definita l’orchestra messa assieme da Kitt, che ha portato con sé sul palco nomi come il clarinettista Diarmuid MacDiarmada, il trombettista Brian Quinn, Graham Hopkins dei Therapy? alla batteria e Joe Doyle dei Frames al basso.
Per la Tugboat, sussidiaria della Rough Trade, hanno firmato anche i Desert Hearts, trio di Belfast, al debutto sulla lunga distanza a inizio 2002 con Let’s Get Worse, registrato presso gli studi di Glasgow della Chemikal Underground; noise pop con venature che ricordano i My Bloody Valentine, ma con inattese parentesi introspettive, il sound dei Desert Hearts è stato definito da Hot Press addirittura come “il miglior debutto di un gruppo nord irlandese dai tempi degli Undertones”.
Continuano intanto le fortune degli Ash, col frontman Tim Wheeler che ha di recente ricevuto la candidatura al prestigioso Ivor Novello Award, come miglior songwriter dell’anno, per il singolo Shining Lights, così come la sorte arride agli Snow Patrol, giunti alla fine del loro rapporto con la Jeepster, l’etichetta scozzese di Belle And Sebastian, in quanto corteggiati da una major. Tom, Gary e Mark, i tre fondatori del gruppo, sono tutti e tre nordirlandesi, trasferitosi a Dundee per l’università. Il primo lavoro, Songs For Polar Bears, si era guadagnato il titolo di “album of the year” per la prestigiosa rivista on line nordirlandese Oh Yeah. Residenti a Glasgow, irresistibili dal vivo, amanti dell’alcol e dell’umorismo, gli Snow Patrol hanno consegnato ai posteri a inizio 2001 When It’s All Over We Still Have To Clear Up, riuscitissima collezione di ballate pop e ironici spunti lo-fi.
Fra i nomi più interessanti della capitale della Repubblica spicca quello dei Redneck Manifesto, da anni presenti sul circuito live; Thirty Six String, il recente album di debutto, si riallaccia al post rock più cerebrale (Slint, Tortoise), coniugato a un approccio chitarristico che privilegia un suono pieno, a tratti rumoroso. È stata invece veloce l’ascesa dei giovanissimi dublinesi JJ72, guitar band innamorata dei Joy Division con cui condivide la propensione a una certa drammaticità di toni. Mark Greaney, Fergal Matthews e Hilary Woods si conoscono a scuola, e nel 2000, grazie alle copie inviate ai media del singolo Oxygen e ai primi live, diventano una delle più chiacchierate band dublinesi. Il primo, omonimo, album conferma i JJ72 come una delle rivelazioni del 2001, pur nei confini di un pop-rock di stampo sonico sicuramente soggetto a future, promettenti evoluzioni.
Post rock che flirta con l’emo è la proposta dei Wilt, da Kilkenny, guidati dal caparbio e passionale Cormac Battle, uno di quei personaggi per cui il rock sembra essere l’unica via di fuga da una temuta omologazione a uno stile di vita ‘normale’. I Wilt prediligono toni esasperati, devastanti, psicotici, su cui si ergono sprazzi melodici degni di nota; uno stile affine a quello dei Jesus And Mary Chain, e non per nulla il primo gruppo di Cormac si chiamava Rollercoaster, avventura finita dopo il licenziamento da una major, accortasi dell’impossibilità di recuperare le ingenti spese per la registrazione del loro secondo album avvenuta a Los Angeles. La travagliata fine dell’esperienza, e il ritorno alla vita quotidiana divisa fra college e lavoro, non è stata che una motivazione ulteriore alla costituzione dei Wilt, accasatisi presso la Mushroom, che ha pubblicato nel 2000 l’album Bastinado, seguito nel 2002 da My Medicine, più vicino all’indie pop statunitense di R.E.M. e Weezer, e i cui testi rispecchiano il disagio provato da Cormac nei confronti delle logiche consumistiche.
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Campioni d’Irlanda:
la scena elettronica
Ci sono voluti dieci anni perché la scena dance irlandese emergesse dall’undergorund e da ogni sospetto di sudditanza nei confronti della vicina Inghilterra. Come è accaduto con altri movimenti musicali, i dj e i produttori irlandesi hanno saputo trovare un proprio stile, competitivo e degno di interesse, e oggi un nome per tutti, David Holmes, è diventato portabandiera di una nuova cultura giovanile, nata nei piccoli club e nei raduni da migliaia di persone, che ha attecchito anche in Irlanda.
I locali aperti negli ultimi due anni sono affollatissimi, i negozi specializzati in vinili per dj si moltiplicano, come del resto i dj stessi. L’hard house e la progressive trance sembrano essere i generi preferiti dal pubblico, che si riversa in club spesso lontani dalle grandi città: il GPO a Galway, il Club Space a Camolin, il Lust a Thurles, The Grill a Letterkenny e il Lush! a Portrush sono divenuti nomi noti nel circuito internazionale. L’underground è vibrante di piccole organizzazioni che diffondono tramite flyers colorati il verbo di serate che diventano appuntamenti imperdibili, come le serate organizzate dalla Shine In Belfast, le Impulsive Nights che si spostano in tutto il Paese, le serate della Bassbin a Dublino, che si contendono i nomi più interessanti di passaggio in Irlanda.
Ma l’aspetto maggiormente interessante è proprio il fiorire di talenti autoctoni, accompagnato dalla creazione di etichette indipendenti in grado di supportarli, il cui bilancio ormai è in gran parte in attivo grazie alle esportazioni. Un fattore chiave di sviluppo per etichette come la Impulsive, la Ultramack, la Influx e la Bassbin è la presenza della Dublin Distribution, una struttura fondata da Eamon Doyle per trovare canali distributivi utili a tutta la cordata in Irlanda e all’estero. Gli stessi U2, alla fine del 1999, hanno voluto fondare la propria etichetta dance, la Kitchen Recordings, il cui nome è legato a quello del club dublinese da tempo gestito dal quartetto chiamato appunto The Kitchen, che si trova nell’area di Temple Bar. Altro nume tutelare della scena è Darren Flynn, fondatore dell’Home Grown Records Ireland e per due anni direttore della programmazione di Kiss FM Dublin, stazione radio prettamente dance. Altro nome in ascesa è quello di Gregory Ferguson, noto col nome d’arte di Jupiter Ace; ispirata dall’approccio di Aphex Twin e dal suono dei synth e dei computer vintage degli anni Ottanta, l’elettronica di Jupiter Ace è imprevedibile, volutamente non raffinata, e sta trovando adepti in ogni angolo della nazione.
Le 30mila persone che hanno partecipato a ognuna delle prime edizioni irlandesi di Homelands, il festival dedicato interamente all’elettronica che è da anni un appuntamento classico in Inghilterra e Scozia, sono del resto la prova più evidente delle cambiate abitudini musicali degli irlandesi, o perlomeno dell’esistenza di un vasto pubblico, composto soprattutto da under 30, che segue con passione l’elettronica in tutte le sue forme.
Il nome di punta dell’elettronica irlandese è comunque a tutti gli effetti quello di David Holmes, il cui lavoro spazia fra la composizione di colonne sonore (Resurrection Game, Out Of Sight, Accelerator, Ocean’s Eleven), i lavori originali e i remix. Ispirato da grandi nomi dell’ultimo secolo quali Lalo Schifrin, John Barry, Ennio Morricone, Holmes a saputo coniugare quest’immaginario con ritmi pensati per i più moderni dancefloors e vibrazioni jazza/soul. Holmes è nato a Belfast, ultimo di ben dieci fratelli; cresciuto con un background musicale a base di punk rock, ha iniziato a lavorare come dj a soli quindici anni. I suoi set nei più disparati locali della città erano soliti spaziare dal jazz al mod, dalla disco music al northern soul. Sugar Sweet, la serata che lo vedeva protagonista ai piatti, è diventata in breve tempo l’appuntamento imperdibile in Ulster per gli amanti della club culture. La fama acquisita lo porta a prendere contatti con i guru del mixer inglesi, fra cui Andrew Weatherall e Darren Emerson degli Underworld. I primi remix lo vedono al lavoro per i Sabres Of Paradise di Weatherall, i St. Etienne, i Therapy? e Justin Warfield. Nel 1995 Holmes firma un contratto con la Go! Discs, per cui pubblica il primo album, che già dal particolarissimo titolo (This Film’s Crap, Let’s Slash The Seats) evoca la sua passione per il cinema, e difatti una traccia diverrà parte della soundtrack di The Game, pellicola con Sean Penn e Michael Douglas.
Negli ultimi anni, dopo la pubblicazione dell’album Bow Down To The Exit Sign (influenzato dal Sixties garage made in Usa), l’attività di Holmes si è divisa fra Belfast e New York, dove ha fondato la label 13 Amp. La passione per il blues e il soul informa Come Get It I Got It, l’ultimo, recentissimo lavoro, che rilegge oscuri classici del genere dall’archivio di tre decenni or sono, i cui originali sono firmati da nomi eccellenti come Muddy Waters e The Staple Singers, remixati senza un solo secondo di pausa da Holmes e dal suo fido collaboratore Steve Hilton, come colonna sonora ideale di ogni festa a venire. Il sound dei Commitments pompato dai woofer di un club invece che dal PA di un palco. In fin dei conti, gli irlandesi sono o no i neri d’Europa?
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Neri d’Irlanda
Gli ultimi anni non hanno cambiato solo il volto di Dublino, con ristrutturazione di intere aree, fra cui la più nota è Temple Bar, ma anche i volti dei dubliners, volti che certo James Joyce non si sarebbe mai immaginato di poter incontrare nelle peregrinazioni dell’Ulisse. I dintorni dell’ILAC Centre, coi muri da anni infestati dai graffiti, conducono nella Little Apple della capitale, sui marciapiedi della sempre più multiculturale Moore St., impregnata dall’odore dei cafè nigeriani. Lungo Parnell St. una fila di negozi gestiti da immigrati di colore ha valso alla zona il soprannome di Little Africa; la popolazione è composta in parte da rifugiati, in parte da nigeriani con passaporto britannico e un discreto capitale da investire. Negozi come Tropical Superstore o Infinity Ventures allineano sugli scaffali cibi afro-caraibici, frutti esotici, oggetti di artigianato, videocassette a tema etnico, periodici dai titoli inusuali come African Soccer, African Guardian, Black Perspective, Okebe, Nigerian News. I suoni che pervadono l’aria dondolano ai ritmi hip-hop, al passo di gang vestite con jeans dal cavallo basso, scarpe da basket e vistosi gioielli.
La trasformazione di Parnell Street è iniziata tre anni fa, con l’apertura del Tropical Superstore; oggi cinesi, italiani, nigeriani e irlandesi rendono l’area vibrante ed eclettica, e da poco ha aperto Reverb, record shop gestito da Eamonn Doyle, specializzato in vinili techno e novità dance. Prevedibili le tensioni razziali: la paura della concorrenza degli stranieri nel tentativo di conquistare una migliore posizione sociale ha scatenato episodi di xenofobia, con occasionali scontri, cui gli attoniti residenti di vecchia data fanno da spettatori, ancora increduli della trasformazione dei pub in botteghe dagli odori sconosciuti.
Apparentemente non c’è integrazione fra gli irlandesi bianchi e la gente di colore; ognuno tenta di affermare, o di difendere, la propria identità culturale; il successo della cantante nera r&b Samantha Mumba, nata e cresciuta a Dublino, e rimasta ai vertici della classifica di vendita per un mese intero, è la testimonianza della definitiva scomparsa di una Dublino monodimensionale e monoculturale.
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Lo Stato della Musica
Le istituzioni irlandesi hanno da sempre individuato nel patrimonio musicale tradizionale un bene da preservare e promuovere, ma negli ultimi anni è stato formalizzato anche il supporto alla scena contemporanea, con particolare attenzione verso il settore degli indipendenti. Al Ministero per le Arti, il patrimonio Culturale, le Gaeltacht e le isole, presieduto da Síle de Valera, si deve la recente creazione dell’Irish Music Board, che rappresenta un riconoscimento ufficiale delle potenzialità dell’Industria Musicale Irlandese. L’approccio e gli intenti sono di natura più economica che artistica, e un input non indifferente per la creazione della struttura è stato costituito da un’inchiesta portata avanti dallo storico magazine Hot Press, in cui venivano evidenziate le strade da intraprendere per favorire la crescita del mercato discografico dell’isola, un lavoro che ha trovato diffusione e approvazione negli ambienti politici, dapprima con la creazione, grazie a Michael D. Higgins, di una Music Industry Task Force, e subito dopo con l’apertura dell’Irish Music Board, di cui è responsabile Ann O’Connell, già componente dell’Irish Film Board.
“Sono rimasta impressionata dall’enorme numero di talenti attivi nell’ambito dell’industria musicale irlandese”, ha dichiarato la O’Connell poco dopo l’insediamento, “non ci sono solo musicisti, ma anche manager, produttori. La materia prima è abbondante, noi dobbiamo darle nutrimento e permetterle di sviluppare appieno il proprio potenziale.” Fondamentale la decisione di fornire particolare supporto alle etichette indipendenti, a cui non manca certo l’iniziativa, quanto il capitale e i contatti con l’estero; in quest’ottica il Board si pone come punto di riferimento pratico, fornendo consulenze e finanziamenti a progetti e piccole imprese, ed elaborando strategie collettive.
Nel ’99 è stata inaugurata anche l’IRMA Trust Instrument Bank, il cui compito è quello di supportare economicamente progetti legati alla musica, in particolare rivolti a giovani e adolescenti. Jessica Fuller, responsabile del Fondo, ha osservato attraverso le 80 iniziative finora finanziate l’ingente volume di musica che pervade l’Irlanda: “Nel complesso l’industria musicale irlandese gode di ottima salute”, constata la Fuller, “sono stati creati nuovi lavori, e nuovi servizi, anche se ci sono molti margini di ulteriore sviluppo, fra cui un maggior supporto ai locali che propongono musica dal vivo”.
In Ulster è stata invece istituita nell’agosto 2001 la Northern Ireland Music Industry Commission (NIMIC), al fine di fornire supporto ad artisti, tecnici e ad ogni altra figura che opera nel mondo musicale, senza distinzione fra generi; fra i servizi offerti ci sono il supporto finanziario per l’organizzazione di eventi, la promozione dei talenti locali tramite l’allestimento di showcase, la consulenza per l’organizzazione di tour nazionali e internazionali, l’organizzazione di seminari e infine la produzione di cd compilation per far conoscere gli artisti nord-irlandesi (sito web: http://www.nimusic.com).
Il progetto The Fairplay For Airplay, conlusosi nel febbraio 2002, e supportato dall’IMRO (il corrispettivo irlandese della SIAE, benché l’iscrizione sia gratuita), ha fornito visibilità e sostegno alle radio che più hanno contribuito a promuovere i nuovi talenti locali, sottolineando un ruolo preferenziale, che risale ai tempi della leggendaria Radio Dublino, nel mettere in contatto il vivaio delle nuove band col potenziale pubblico.
Al termine di questo viaggio in un’Irlanda forse inconsueta, ma di cui si parlerà sicuramente sempre di più nei mesi a venire, il consiglio è quello di cercare ulteriori approfondimenti utilizzando le tante risorse disponibili in rete (vedi box qui a fianco). Un espediente che non può ovviamente sostituire il piacere e le aspettative di un viaggio, lungo o breve che sia, alla ricerca delle mille anime dell’Isola di Smeraldo.