22/03/2007

Welcome To The Beat Café

Intervista a Donovan

Attivo più che mai, anch’egli ormai uno splendido sessantenne, quello che una volta era “la risposta inglese a Bob Dylan” non ha mai goduto di grandi simpatie da parte dell’intellighenzia del rock. Eppure, come ha detto Joan Baez, con le sue canzoni ha espresso meglio di chiunque altro i sentimenti della generazione dei figli dei fiori. Non solo: pochi sanno che Sunshine Superman fu il primo vero disco di psichedelia della storia, uscito diverso tempo prima di Sgt. Pepper’s dei Beatles. O che la celeberrima Mountain Jam della Allman Brothers Band si ispira alla sua There’s A Mountain. O che a lui Paul McCartney si rivolse per chiedere aiuto per comporre Yellow Submarine. E cento di altre storie come queste. E se anche ha fatto qualche strafalcione, come quella volta che cantò davanti a Dylan una canzone che era identica a Mr. Tambourine Man spacciandola come sua per sentirsi dire da Zimmerman che, effettivamente, quella la aveva scritta lui, a Donovan bisognerebbe portare un po’ più di rispetto. Soprattutto adesso che, a partire dall’eccellente Sutras del ’97 e dopo un ventennio di inquietante latitanza, si è anche rimesso a fare ottimi dischi, come dimostra il nuovo Beat Cafe.

Parlando con lui, per quanto appaia amabile e divertente, non si può fare a meno di notare che si considera, con un certo fare snob, ancora parte di quell’aristocrazia del rock che un giorno, nella lontana India, si riunì tutta assieme a meditare e a indicare ai giovani occidentali nuove strade. Già, perché in quei giorni con lui c’erano anche George, John e Paul. Tre dei Fab 4…

Sette anni dal tuo ultimo disco di canzoni nuove, Sutras. Che ha fatto Donovan in questi anni?
Sono stato molto impegnato. Faccio molti concerti ogni anno e ho promosso a lungo Sutras. Ho lavorato al mio libro, la mia biografia, che uscirà l’anno prossimo. Ho dato vita a una etichetta discografica, la Donovan Records, dove mi occupo dei miei archivi, e ho anche aperto un website (www.donovan.ie, nda).

Tramite questa etichetta ripubblicherai i tuoi vecchi dischi, magari con bonus tracks?
No, voglio più che altro dedicarmi a materiale che non era mai stato pubblicato in precedenza, li
chiamo i “lost tapes”. Il primo cd che abbiamo pubblicato si intitola Sixty Four, ed è disponibile proprio tramite il sito. Contiene le mie prime nove registrazioni in assoluto, precedenti il mio primo album ufficiale. Ma anche il nuovo cd, Beat Cafe, è uscito per la Donovan Records.
Per quanto riguarda i miei dischi ufficiali, il catalogo è nelle mani della Sony. So che l’anno prossimo pubblicheranno un cofanetto con molte outtake.

Come nasce l’idea del “caffè beat”?
Grazie a John Chelew. Lui è un ottimo produttore, ha vinto dei Grammy con gente come i Blind Boys Of Alabama. Un giorno mi chiamò dicendomi che aveva appena fatto un disco con il mio grande amico Danny Thompson. Poi mi chiamò Danny dicendomi che John voleva produrre qualcosa di magico con Danny Thompson e Donovan, come ai vecchi tempi. Chiamai John e lui mi disse: “Se hai bisogno di un batterista, il migliore è Jim Keltner”. Così ci trovammo in studio: Danny, “master of the bass”, io, “master of the acoustic” e Jim, “master of the drums”.
Così i tre “masters” si misero al lavoro in uno studio di Hollywood e un pezzo dopo l’altro nacque il disco. Lo spirito era quello di raccontare l’epopea dei caffè beat, dei bohemien, così usammo improvvisazione allo stato puro. Ma attenzione: questo non è jazz vecchio stampo, o vecchio blues. Questo è un nuovo modo di fare musica.

In effetti si sente un certo sperimentalismo nel disco, specialmente nel primo brano, Love Floats. Sembra quasi una cosa trip-hop…
Quel pezzo sembra un po’ Georgie Fame, sembra R&B, è molto atmosferico. È facile raggiungere quei livelli quando hai Danny Thompson, Jim Keltner e… Donovan! Seriamente, per ottenere un buon sound il produttore è molto importante, e anche lo studio è importante. Abbiamo fatto tutto in analogico con qualche esperimento digitale. Anzi, solo qualche loop. Abbiamo voluto sperimentare, ma si tratta di loop acustici, non elettronici, abbiamo voluto essere il più fedeli possibile al sound acustico.

Tu sei cresciuto tra la Scozia e l’Inghilterra, mentre la scena beat è genericamente associata all’America. C’era dunque una scena beat anche nell’Inghilterra della tua adolescenza?
La scena americana era ovviamente dominata dai poeti beat, ma c’era una scena analoga anche in Inghilterra. Quando avevo 10 anni la mia famiglia si trasferì nei pressi di Londra e c’erano un sacco di locali bohemien dove si suonava il jazz, il blues, il folk, si recitavano poesie… Ma era molto diverso dalla scena americana. I nostri erano essenzialmente dei pub, non dei caffè, ma il sentimento era simile. Il movimento bohemien è una cosa che nasce in Europa prima che in America, nasce negli anni 40 a Parigi, quando un nuovo genere di uomini e donne cominciano a camminare per le strade, si ritrovano nei caffè dove un tempo si trovavano gli zingari, ed è stata una scena molto forte anche in Inghilterra. Sono stato influenzato anch’io da Kerouac, Ginsberg e Burroughs, ma sai che la famiglia di Kerouac proveniva dall’Europa, dalla Francia, lui era franco-celtico. Per cui c’è una connection molto forte tra la poesia beat e quella classica europea. Noi giovani amavamo l’America per via del jazz, quel mischiare poesia e jazz ci faceva impazzire. Loro hanno aperto le porte a tutto quello che è venuto dopo.

Il brano Ying My Yang, con quel divertente gioco di parole, è puro Donovan…
Amo diversi approcci musicali, dal folk al blues al jazz alla musica latino americana, e questa canzone usa uno stile latino inusuale, lo chiamerei Donovan latin (ride, nda)… Ha un feeling bossa nova molto semplice, ma è anche simile al tango. Le parole vengono dal tipico slang dei bohemien, il buddismo era centrale nella loro filosofia di vita. Ho voluto scherzare un po’ con quei modi di dire, alla fine è solo una canzone d’amore.

Nel disco c’è una bellissima versione del classico della tradizione folk The Cuckoo. Come mai proprio quel brano?
The Cuckoo è una canzone molto nota, che noi vecchi folksinger amiamo e spesso è occasione per fare una jam, proprio come il tuo giornale (ridacchia, nda)… È un brano molto semplice da suonare ma appassionante. I caffè bohemien avevano naturalmente molta musica folk. L’idea venne per caso, eravamo in studio e Jim Keltner mi sentì accordare la chitarra e fare del picking, usando la melodia di The Cuckoo. Mi chiese: “Cos’è questa musica delle montagne? (con “mountain music” in America si intende la più antica musica tradizionale, nda). The Cuckoo? Perché non la registriamo?”. La facemmo due volte e basta. Danny naturalmente la conosceva, quando suonava nei Pentangle fecero una favolosa versione di questo brano. Fu divertente. Poi ci chiedemmo: “Dobbiamo metterla sul disco? È un po’ differente dal resto”. Jim era deciso: “Deve esserci!”. Mi accorsi che quando ascoltavamo il nastro di The Cuckoo, Jim sembrava così contento… Gli chiesi come mai. Mi disse: “Finalmente ho ‘outcashed’ Johnny Cash” (“Ho battuto Johnny Cash”, nda). Jim aveva sempre desiderato fare un disco con Johnny e se ascolti attentamente la registrazione, sentirai che Jim suona come suonavano i batteristi di Cash. Per lui quel vecchio brano folk rappresentava la coronazione di un sogno… Fu così che decidemmo di lasciarla su Beat Cafe.

Do Not Go Gentle è invece un adattamento di una poesia di Dylan Thomas.
È stato un grande poeta di quell’epoca storica, una grande influenza per me e per altri. Lawrence Ferlinghetti fu uno dei primi a recitare poesia su musica jazz e Dylan Thomas, anche se non era un beatnik, era attivo in quel periodo, così abbiamo messo insieme le due cose. Questa poesia era un tributo a suo padre e siccome mio padre è morto qualche anno fa ho voluto fargli un omaggio.

Hai già proposto questo disco dal vivo?
Sì, l’ho presentato a San Francisco, ovviamente al Vesuvio, il caffè nel quartiere di North Beach (quello che bazzicavano Kerouac e i suoi amici, nda), Chicago e New York. Dovrei venire a Roma in primavera. In questi concerti, che devono assolutamente tenersi in un caffè, mettiamo sulle pareti delle foto di Kerouac e Burroughs, le cameriere devono indossare delle speciali t-shirt in stile beatnik e a un certo punto del concerto io dico: “C’è qualche poeta in sala?”. Si alza una persona, io lo invito sul palco e reciterà delle poesie. Che ne dici?

Mi sembra divertente… Nel disco scrivi: “The journey leads to where you always been”. Questo disco potrebbe essere dunque la conclusione del tuo viaggio?
Il viaggio continua, ci sono ancora cose che devono succedere. L’anno prossimo è il 40esimo anniversario del mio primo disco, ci saranno molte iniziative: il cofanetto, il libro, una tournée. Ho celebrato il beat cafè quest’anno perché quello fu l’inizio, è da lì che giunsero tutte le idee che hanno cambiato in meglio il mondo. Da quei caffè sono giunto io e da questo caffè partirò a celebrare il mio viaggio personale come artista l’anno prossimo, quando festeggerò il mio quarantennale. E di nuovo tornerò a parlare di diritti civili, pace, psichedelia, meditazione, ecologia, femminismo, coscienza cosmica… quelle cose di cui ho cantato per tutta la mia carriera.
Dopo questa celebrazione il mio viaggio continuerà verso nuovi orizzonti. Ho già in mente un’idea per un disco di canzoni nuove. “Il viaggio ti porta sempre a dove hai cominciato” è una espressione per dire che il mondo spirituale è sempre dentro di te e sempre la musica tornerà alle radici e a dove eri all’inizio… ma il viaggio continua.

Ho letto una tua recensione di Chronicles, l’autobiografia di Bob Dylan (vedi box a pagina 44)…
Mi è piaciuto molto, anche lui parla dei suoi giorni da bohemien.

Hai avuto occasione di vederlo suonare, recentemente?
Non proprio recentemente, credo che l’ultima volta sia stato circa cinque anni fa. Credo che il formato dei suoi show sia ancora simile a quello che vidi. Mi è sembrato molto dentro l’R&B elettrico, che a lui è sempre piaciuto molto. Mi è piaciuto Time Out Of Mind, credo che Daniel Lanois sia il produttore perfetto per Bob.

Non molti sanno che uno dei brani più celebri della Allman Brothers Band, Mountain Jam, si ispira a una tua canzone, There’s A Mountain. Mi è sempre sembrato bizzarro che un gruppo come la ABB abbia usato una canzone di Donovan…
È splendido, non è vero? Qualche anno fa, quando Gregg Allman stava ancora insieme a Cher, lo incontrai a Berlino. Lo ringraziai per quel brano perché quando un grande gruppo riprende un tuo pezzo è sempre un piacere. Anche Season Of The Witch venne ripresa da Stephen Stills e Al Kooper nel loro disco Supersession. È una cosa molto cool… Lo sapevi che i Led Zeppelin erano soliti cominciare i loro soundcheck proprio con Season Of The Witch perché potevano divertirsi a bilanciare il suono dei loro strumenti senza dover fare un brano loro e cominciare a litigare? (Ride, nda)

Naturalmente Jimmy Page ha suonato con te.
Jimmy era un session man, a quel tempo, e fui molto fortunato ad averlo con me. Lui è un chitarrista eccezionale, suona in Sunshine Superman e Hurdy Gurdy Man. Sono sicuro che abbiamo fatto altre cose insieme, le sto cercando nei miei archivi per poterle pubblicare. Anche Jeff Beck ha suonato con me, anche lui è fantastico. Mia moglie Linda (ex fidanzata di Brian Jones dei Rolling Stones, il cui loro figlio fu poi adottato da Donovan, nda) aveva un’amica, Cecilia Hammond, che aveva sposato Jeff. Il mio produttore di allora, Mickey Most, stava lavorando con lui al suo disco Beck-Ola e lo invitò con la sua band a registrare un singolo con me. Il brano era Barabajagal, ma Jeff era in ritardo. Nella sua band allora c’erano Ron Wood e Nicky Hopkins, che passava il suo tempo in studio leggendo dei fumetti, quelli di Silver Surfer. Poi Nicky avrebbe chiamato la sua band Silver Surfer. Comunque Jeff non arrivava, per fortuna Mickey aveva vino, birra e ogni genere di conforto… Quando finalmente arrivò, chiese dove era la sua chitarra: “Dove è la mia cazzo di chitarra?”. E la band: “Oh no, è rimasta chiusa nel van”. Allora Mickey mandò qualcuno a prendere in affitto la miglior Fender Stratocaster in tutta Londra, così finalmente registrammo, in tre sole take. Jeff ha bisogno di sentire un pezzo solo una volta. Barabajagal fu il più inusuale Donovan record… Anche Epistle To Dippie è davvero inusuale: è un esperimento con suoni di traffico automobilistico, chitarre rock e strani accordi, accordai la chitarra in modo decisamente bizzarro. Come vedi, ho sempre sperimentato e ancora lo faccio.

Sei ancora in contatto con questi personaggi?
Volevo Jimmy Page in questo disco. L’ho chiamato un sacco di volte, volevo che suonasse acustico, nello spirito del progetto. Un giorno aveva mal di schiena, un altro era occupato… Così dissi a John: “Perché non la suono io la chitarra solista?”. Così ho fatto e sono contento. Di solito sono molto timido, non mi va di fare il solista ma credo di aver fatto un fantastico fingerpicking. Mi sono divertito e mi dispiace che Jimmy non sia venuto ma credo di aver scoperto un nuovo chitarrista… Donovan! (Ride, nda)

Tu eri molto amico dei Beatles, si sono ricordate da poco le scomparse di George Harrison e John Lennon…
John mi manca molto ma la sua musica continua per sempre. Lui fu una vittima della celebrità, nel modo peggiore. Nel mio libro parlerò di John e della libertà che perdemmo quando diventammo famosi e dei pericoli che la celebrità porta. George, tra i Beatles, era il mio miglior amico, il suo e il mio pensiero spirituale erano simili. La sua musica andrà avanti per sempre. George sarebbe il primo a dire: non preoccuparti per il mio corpo. Lui era solito dire: “Non credo nel corpo, il corpo è solo qualcosa che prendiamo, lo lasciamo e andiamo in una nuova vita”. George si è reincarnato, oppure è in qualche paradiso, magari è su “cloud nine”.
Mi mancano tutti e due ma sarebbero i primi a dire: “Non essere triste, vai avanti con la tua vita e fai del mondo un posto migliore”.

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