21/03/2007

Wilco

Intervista a Jeff Tweedy

Chiari, estate 2004. Sono nel backstage dopo uno splendido concerto dei Wilco. Avvicino Jeff Tweedy per un saluto. Ancora carico di adrenalina per la splendida esibizione a cui ho appena assistito a opera della sua band, gli dico a bruciapelo: “Dovreste pubblicare un disco dal vivo”. Mi guarda decisamente storto, con l’aria del tipo “Cazzo vuole questo qua” e risponde con un sorriso a denti stretti: “Davvero? Però anche in studio non siamo così male”.

Gaffe? Può darsi, certo è che il Jeff Tweedy di quei giorni lì non se la sta passando molto bene fisicamente. È appena uscito da una clinica dove si è disintossicato ufficialmente per abuso di “painkillers”, pillole antidolorifiche che ha assunto nel tentativo di curare una emicrania cronica che lo perseguita da anni. Qualcuno suggerisce altre motivazioni dietro al ricovero. Il musicista non beve più alcolici da una decina di anni e da lì a qualche mese smetterà anche di fumare. Il pomeriggio prima del concerto lo aveva passato a dormire sul pullman per cui quella risposta la archivio come “bizze da musicista rock stressato”.

Milano, primi di settembre 2005. È un Jeff Tweedy del tutto diverso quello che incontro nel backstage del Mazda Palace: un po’ ingrassato ma gioviale, sorridente, decisamente di buon umore. È qui per suonare con la sua band ma anche per presentare ai giornalisti il disco dal vivo Kicking Television – Live From Chicago che uscirà un paio di mesi dopo (adesso, per chi legge). Quando gli ricordo l’episodio di un anno prima scoppia a ridere: “Eri tu quello che mi ha fatto quella domanda? Mi ricordo benissimo.” sembra voglia scusarsi per la risposta un po’ maleducata. “Hai visto? Avevi ragione tu. Ecco il disco dal vivo che aspettavi”.

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Certo, avevo ragione io perché i Wilco, per quanto eccezionali anche nei loro dischi in studio, dal vivo sono cento volte meglio, merito di musicisti formidabili che sanno affinare le splendide composizioni del leader e soprattutto esaltarle in un crescendo sonico che ha ben pochi paragoni nell’amorfa scena rock del terzo millennio. Un concerto dei Wilco è una celebrazione del miglior spirito del rock’n’roll. Se qualcuno ancora si chiede qual è il segreto di questa band, si rilegga queste parole di Jeff Tweedy: “Ho sempre amato la musica, anche prima di incontrare Jay Farrar (co-fondatore con Tweedy degli Uncle Tupelo, il gruppo leader della scena alt. country, nda). Ho amato la musica per tutta la mia vita e ho ascoltato ogni genere di cose. Mi piace la musica country, mi piace la musica folk, è parte importante della mia vita, ma neanche minimamente importante come lo è la musica punk o la musica ancora più fuori di testa”.

Doveva esserci anche un dvd in uscita oltre al cd dal vivo, purtroppo una serie di problemi ha fatto sì che questa uscita slittasse almeno per il momento. Il gruppo aveva infatti filmato una delle quattro serate consecutive tenute a maggio al Vic Theatre di Chicago: “Ah merda.” sbotta Jeff quando glielo ricordo “quella fu una delle peggiori serate della nostra vita come band. Una esperienza realmente frustrante. Avevamo speso un sacco di soldi ma non funzionò praticamente nulla dal punto di vista tecnico. Così per adesso uscirà solo un cd audio dal vivo. La gente dovrà darsi da fare con l’immaginazione.” ridacchia.

Dopo Yankee Hotel Foxtrot e soprattutto A Ghost Is Born (un milione di copie complessivamente vendute) i Wilco non sono più pi quella cult band di cui solo pochi appassionati conoscevano le gesta: “C’è stato un buon riscontro commerciale” dice “il che vuol dire essenzialmente poter fare la nostra musica in modo più confortevole, avere meno stress nel poter fare ciò che veramente vogliamo fare. Abbiamo anche potuto migliorare te-cnicamente il nostro studio. Ma il punto fondamentale è rimanere interessati e affascinati dalla musica. In effetti c’è stato anche un altro cambiamento: adesso ogni cosa è… di più. C’è più gente che ti loda ma c’è anche più gente che ti critica. Quando sei più visibile, più popolare, c’è più gente che ritiene di avere una opinione di te. sai, quel tipo di gente che crede di avere una opinione su ogni cosa”.

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Cito a Jeff una risposta che qualche tempo fa lui stesso aveva dato a un giornalista tedesco che insisteva a chiedergli perché non scrivesse più canzoni politiche (se qualcuno riesce a trovare una sola canzone politica nel songbook dei Wilco gli pago una cena) dopo Ashes Of The American Flag, secondo lui un brano che parlava dell’America del dopo 11 settembre (e invece, dovrebbero saperlo quelli che si preparano a intervistare Jeff Tweedy, era stata scritta e registrata mesi prima): “My fucking guitar playing is more political than anything”. Frase che fa eco con una analoga pronunciata da Pete Townshend a proposito di Michael Moore (“La mia chitarra ha fatto più per la rivoluzione di ogni film o discorso politico”). Scoppia a ridere ricordando l’episodio, poi si fa serio: “È così ovvio, almeno per me. Non ci sarebbe neanche bisogno di sottolinearlo. Il rock’n’roll ti pone da solo dalla parte giusta della creazione, della realtà delle cose. Non vedo come puoi essere un musicista rock e berti ad esempio le cose che fa la nostra amministrazione politica. Siamo nella merda, negli Stati Uniti, e il rock’n’roll da solo è una risposta. Non c’è bisogno di scrivere canzoni politiche”. Il vero rock’n’roll, dico io, ché ce n’è sempre meno in giro. “Beh, non credo sia solo un problema di finte band rock come in effetti ce ne sono tante oggi. Il vero problema è che oggi ogni cosa è falsa. Sono ottimista, però, vedo che la gente in America piano piano si sta svegliando e reagendo alla situazione. Il Vote For Change Tour non è un buon esempio in questo senso anche se sono favorevole a qualunque tipo di iniziativa che possa cambiare il Presidente degli Stati Uniti. Insomma, quel tour è stato come predicare ai convertiti, non so se mi spiego. Non c’è bisogno di dire al pubblico rock di non votare per Bush. Credo che avessero più che altro bisogno di sentirsi uniti in una causa, tutto lì”.

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Ha sempre rifiutato ogni genere di etichettatura per la sua musica, Jeff Tweedy. “Se ti piace scrivere canzoni, ne ascolti di ogni tipo. Non credo tu ti possa rivolgere a un’unica fonte di ispirazione, qualunque sia questa fonte di ispirazione non la trovi in una singola persona, credo che la puoi rintracciare un pochino in tutti quanti. Per quanto mi riguarda non sono in grado di citare un’unica ispirazione”. Lo incalzo e lui si ferma a pensare: “Bob Dylan ovviamente, credo sia la fonte di influenza per quasi tutti. E poi Ray Davies dei Kinks, troppo sottovalutato, mi ha ispirato per molto tempo”.

Cercare significati nei versi che Tweedy compone è un’impresa azzardata: “Non mi rifiuto di commentare i miei testi, tutt’altro. Il problema è che ti darò delle risposte stupide.”. Gli chiedo allora di commentarmi quelli che sono alcuni dei suoi versi per me più belli da lui composti, quelli di The Late Greats, la canzone che concludeva A Ghost Is Born, una specie di peana all’immortalità della musica rock, quella che non passa su Mtv, e che esprime meglio di altre la visione poetica del musicista: “Il più grande brano perduto di tutti i tempi / Non puoi ascoltarlo alla radio / La band migliore non avrà mai un contratto / Non hanno mai neanche fatto un concerto / La canzone migliore non verrà mai cantata”.

“Quel brano cominciai a scriverlo addirittura prima di registrare Being There (1996). Per molto tempo rimasi fermo al primo verso. Dopo averlo provato con il gruppo in studio diverse volte mi misi a cercare tra i miei appunti di poesia qualche verso e trovai queste cose che avevo scritto a proposito del fatto che le canzoni in realtà non giungono dal performer ma dall’ascoltatore. Cioè: le canzoni migliori accadono in qualche oscura cantina dove un cantautore o un gruppo rock non avrà mai la possibilità di inciderle. La musica è della gente, non delle televisioni. Mi ci sono voluti otto anni per completarla. Ma è una cosa che mi succede sempre. Ho canzoni che rimangono lì nel cassetto per anni”.

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Dopo l’intervista mi fermo a sentire il sound-check, un momento privilegiato in cui osservare affascinati come i Wilco lavorano alla propria musica. Attacca il solo Tweedy con una versione “perfetta” (ogni passaggio di armonica è imitato alla perfezione) di John Wesley Harding, oscuro brano di Bob Dylan. Arriva il resto della band e si cimentano in altre due cover: una è Something In The Air, bellissimo ma altrettanto dimenticato hit single dei primi anni 70 dei Thunderclap Newman. Quindi provano per tre volte e con tre arrangiamenti diversi un pezzo nuovo, un funkettone dal groove nero tipicamente made in New Orleans (Tweedy lo definisce “alla Little Feat”) divertendosi in modo palese. Sì, Jeff Tweedy adesso è felice e i Wilco sono pronti alle più incredibili avventure soniche. Il grandissimo concerto che seguirà ne sarà la prova. Adesso abbiamo anche un cd a ricordarcelo.

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