20/03/2007

Xavier Rudd

Un aborigeno color latte

“Cavolo, che set. nel nostro studio non c’entrerà mai” mi dice, preoccupatissimo, Francesco Napoleone, giovane responsabile della comunicazione di LifeGate Radio. Il set è quello di Xavier Rudd, prodigioso hippy surfer australiano che si sta esibendo per la prima volta in Italia sul palco del Transilvania, a Milano, e che il giorno seguente deve registrare una puntata di RockFiles Live in mia compagnia. Effettivamente, il tutto fa una certa impressione: su una pedana da batterista rock, che ha come fondale la bandiera della nazione aborigena, sono montati un gong, numerose e stravaganti percussioni etniche più tre lunghi didgeridoo, sorretti da altrettanti reggistrumento ad hoc. Il ragazzo di Torquay si siede nel mezzo imbracciando, a turno, una delle sue chitarre acustiche a 6 e 12 corde o appoggiando sulle gambe una delle sue ancor più belle slide hawaiane, stile Weissenborn (lo stesso modello reso popolare da Ben Harper). Ciascuno dei piedi poggia su box di legno opportunamente microfonati tanto che il semplice battere produce un accompagnamento percussivo (una specie di bum-cha, bum-cha) che rende il sound ancor più pieno e corposo. Non solo. Xavier canta e suona (bene) pure l’armonica.

Vederlo in azione dal vivo è davvero spettacolare. Anche se, ancora più suggestivi ed emozionanti, sono i suoni e i ritmi della sua musica. Quando Xavier soffia nel didgeridoo crea un’atmosfera straordinaria, quasi onirica: di colpo, si viene proiettati nell’outback del Northern Territory australiano, tra deserti incandescenti e cieli infiniti, in mezzo a eucalipti bianchissimi e animali particolari. Un secondo dopo, le canzoni di questo artista eccentrico e talentuoso ci fanno volare in alta quota, trasportandoci verso realtà parallele. Rudd riesce a combinare in modo mirabile varietà stilistica (un classico reggae si alterna a ballad evocative, un 4/4 sincopatissimo dà il cambio a una melodia eterea) e originalità interpretativa. Il pubblico in sala, numericamente ridotto ma qualitativamente elevato, è totalmente rapito da una proposta creativa che in questo momento non ha termini di paragone. Per provare a spiegare di cosa si tratta, a chi non lo ha mai visto né sentito, è necessario ricorrere a improbabili addizioni di fattori diversi. E la somma (butto lì, Ben Harper + Paul Simon + Nana Vasconcelos) non rende comunque l’idea. Believe me. Xavier Rudd va ascoltato: meglio, se in concerto. Già, perché, se proprio vogliamo trovargli un difetto, c’è ancora, da parte del ragazzo australiano, una non totale consapevolezza del proprio potenziale.

“Passo il 95% del mio tempo in tournée e solo il 5% in studio” ammette il mattino dopo quando siamo in trasmissione “per questo, metà dei dischi che ho sinora pubblicato sono live e anche quando mi trovo in sala d’incisione tendo a riprodurre il mio sound come fossi dal vivo”.

Infatti, anche per il recente e peraltro bellissimo Food In The Belly, Rudd, più che un produttore alla sua altezza, si è preoccupato di trovare un luogo immerso nella natura canadese, nei pressi di Vancouver, dove poter lavorare seguendo i suoi ritmi e le sue inclinazioni. Ancora più semplici sono state le motivazioni che hanno portato alla realizzazione dell’album. “È capitato di avere un mese off tra il tour in Canada e quello negli Stati Uniti” ci ha raccontato con onestà “ne abbiamo approfittato per registrare un disco”.

Biondissimo, non molto alto ma con fisico atletico, Xavier è personaggio aperto e disponibile. Ci eravamo sentiti telefonicamente un paio di settimane prima del nostro incontro, quando lui era ancora a casa. Gli avevo raccontato di come, un anno e mezzo fa, mi ero imbattuto per puro caso nella sua musica. Mentre ero in vacanza nel Nordovest dell’Australia, un giorno ho notato in piena bushland una freccia con la scritta “Didgeridoo Hut” (la capanna del didgeridoo). Incuriosito, mi sono fermato a visitare questo fantastico showroom pieno zeppo di oggetti di artigianato aborigeno di varie fogge, dimensioni e disegni. Sul bancone, un display dei dischi di Xavier Rudd. “Lo conosce? È eccezionale!” mi dice la proprietaria del locale, quando nota che osservo i cd esposti “è un caro amico di mia figlia. Lo ascolti, non se ne pentirà”.

Detto, fatto. La musica di Xavier è stata la colonna sonora della mia traversata del Kimberly, un viaggio favoloso impreziosito da una soundtrack perfetta. “Sono luoghi magnifici” conferma Rudd “aspri, selvaggi ma pieni di energia”.

L’attrazione di Xavier per la spiritualità è palpabilissima: nei suoi atteggiamenti e nelle sue scelte artistiche. Ed è perfettamente coerente con la totale adesione alla cultura e alla filosofia degli aborigeni. “Da ragazzo, frequentavo coetanei aborigeni. Sono sempre stato affascinato dal loro mondo, dalle loro credenze, dalla loro profonda spiritualità. Avevo una bisnonna aborigena e quindi, probabilmente, è qualcosa che sentivo nel sangue. Ricordo che i miei amici di colore mi chiamavano the black fellow with a milky skin oppure the black guy in a white shell” ovvero il ragazzo nero con la pelle color latte o ricoperto da una conchiglia bianca.

Da questo punto di vista, la sua storia ricorda quella di Johnny Clegg, formidabile musicista sudafricano, soprannominato lo zulu bianco. Come Clegg, Rudd ha saputo incorporare e metabolizzare i suoni delle radici trasformandoli e personalizzandoli grazie a un tasso di creatività sopra la media e all’utilizzo di un linguaggio mutuato dal rock.

Prendiamo il didgeridoo. Xavier sfrutta lo strumento principe della musica degli aborigeni in maniera originalissima con una tecnica sbalorditiva (“Ci ho speso ore e ore di pratica.”) grazie alla quale riesce a farlo diventare una percussione melodica. Poi, con un sistema di amplificazione moderno, fa sì che il suono diventi avvolgente e “quadrifonico”, quasi da dolby surround. Infine, utilizzandone tre sul palco, è in grado di variare la tonalità di uno strumento che per caratteristiche intrinseche è “bordonico” cioè mononota. “Nella lingua aborigena, quella parlata nella Arnhem Land, il didgeridoo si chiama yidaki. Ancora oggi lo si ricava da rami, tronchi o radici di eucalipto scavati all’interno dalle termiti. Si suona con la respirazione circolare che, applicata in modo continuativo, dopo un certo tempo porta alla iperventilazione e conseguentemente a uno sorta di stato di trance del musicista. È uno strumento magico”.

C’è tanta componente esoterica nel mondo di Xavier Rudd. Lui non ne fa mistero perché il Dreamland, il mondo del sogno, è il cuore della filosofia religiosa aborigena basata sulla reincarnazione. “In me vive lo spirito di una donna anziana, che gira il mondo facendomi compagnia e fornendo ispirazione per la mia musica” dice con nonchalance.

I testi delle sue canzoni trattano tematiche spirituali ma parlano anche di amore e rispetto per la natura così come di pace universale. Non è dunque difficile capire perché Xavier Rudd sia diventato un beniamino dei neo hippy americani e canadesi che frequentano il Bonnaroo o gli altri festival stile Woodstock del nuovo millennio.

La Weissenborn è perfettamente in linea con il personaggio e con le sue scelte artistiche. “Non sono un virtuoso della slide, come David Lindley. Mi limito a mettere lo strumento a disposizione delle mie canzoni: ha un suono liquido, perfetto per uno come me che si considera un acquatico.”.

Xavier è nato in un paesino sulla costa sud dell’Australia, nei pressi di Bells Beach, autentico paradiso dei surfer. E il surf è ancora oggi la sua grande passione. Me lo conferma James Looker, suo guitar assistant, quando mi racconta che “Xavier è un surfista sbalorditivo: non un ex pro come Jack Johnson, ma siamo lì.”. “Fare surf” dice Rudd “dà sensazioni che non si possono spiegare. Cavalchi una delle ultime forze energetiche di Madre Natura: è un’esperienza mistica”.

Negli studi della radio (con grande sollievo del giovane Francesco) Xavier non ha portato il suo stage completo: solo un paio di Weissenborn, un didge e uno stomp box. Ma la forza delle sue canzoni, l’energia del suo messaggio, l’originalità delle sue esecuzioni ci hanno trasmesso comunque grandissima emozione.

 

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