Il JazzMI è stato un po’ il festival degli incontri o degli incroci. Una rassegna sul jazz in tutte le sue forme ma soprattutto in tutta la sua essenza. Un’essenza fatta di contaminazioni e dialoghi: tra musiche, tra musicisti, tra culture, tra generazioni. E uno di questi magici incontri è quello che Jonny Greenwood è riuscito a portare con alcune date in Italia, tra cui quella di Milano, al Teatro dell’Arte, proprio all’interno della rassegna che ha animato la città dal 4 al 15 di novembre.
Il figlio degli incontri del chitarrista dei Radiohead si chiama Junun: è un disco, ma anche un documentario sulla sua creazione. Una “follia”, come ci ricorda la traduzione nella lingua urdu del termine, una follia dai connotati non convenzionali. Jodhpur è la località indiana che ha accolto Jonny Greenwood, il cantautore israeliano Shye Ben Tzur e The Rajasthan Express.
Tre universi lontani, che all’inizio del 2015 si sono seduti su un tappeto, come ha documentato Paul Thomas Anderson, hanno fermato il tempo e non hanno mai smesso di suonare e di accordare le loro anime e le loro corde sulla base di quell’armonia religiosa che non separa, ma è capace di far coesistere l’Oriente e l’Occidente su un unico palco.
Un palco che giovedì 10 novembre li ha ospitati tutti insieme a raccontarci quello che è nato dal loro incontro. Undici musicisti, un equilibrio perfetto tra componente ritmica, melodica e armonica.
Un’esibizione all’incrocio tra spirito e carne, tra contemplazione e movimento, tra profondità e leggerezza.
La performance è iniziata con la proiezione del documentario del regista americano Paul Thomas Anderson che ha seguito l’ensemble in India, e poi Junun è stato eseguito dal vivo, dall’inizio alla fine. Ogni esecuzione è partita con soli ipnotici a partire dalle percussioni, per arrivare alla sezione di fiati, al banzuri di Shye Ben Tzur, ai cori della Rajasthan Express Orchestra, fino alle sequenze elettroniche di Greenwood, per poi sfociare nel folklore della complicità di tutta la formazione. A conquistare il pubblico e sciogliere i bacini è stata indiscutibilmente la simpatia di Nathu Lal Solanki che ha più volte coinvolto la platea nelle estasi ritmiche.
Una meditazione, una festa, una ricerca figlia dell’incontro tra la tecnologia e la sperimentazione più ricercata di Greewood, la poetica e l’introspezione melodica di Shye Ben Tzur e il primitivismo della Rajasthan Express Orchestra.
Semplicemente Junun, una follia all’incocrio tra mente corpo e spirito, un esperimento dalle dinamiche già viste ma con un risultato inaspettato.
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Il figlio degli incontri del chitarrista dei Radiohead si chiama Junun: è un disco, ma anche un documentario sulla sua creazione. Una “follia”, come ci ricorda la traduzione nella lingua urdu del termine, una follia dai connotati non convenzionali. Jodhpur è la località indiana che ha accolto Jonny Greenwood, il cantautore israeliano Shye Ben Tzur e The Rajasthan Express.
Tre universi lontani, che all’inizio del 2015 si sono seduti su un tappeto, come ha documentato Paul Thomas Anderson, hanno fermato il tempo e non hanno mai smesso di suonare e di accordare le loro anime e le loro corde sulla base di quell’armonia religiosa che non separa, ma è capace di far coesistere l’Oriente e l’Occidente su un unico palco.
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