Il cantautore, tre volte vincitore del premio Tenco e con oltre mezzo milione di dischi venduti in carriera, ha scelto di proporre i suoi nuovi brani totalmente in acustico e – con chitarra e voce – ha ripercorso la genesi delle canzoni che compongono il disco.
Originario di Monza, ma adottivo di Mezzegra, sul lago di Como, ha fatto di questa appartenenza il marchio di fabbrica della sua musica, decidendo di fare uso di una variante comasca del dialetto lombardo per i testi delle sue canzoni, scelta ovviamente rinnovata anche nel suo ultimo lavoro. Sarà per l’esibizione in acustico o, forse, per la suggestiva e raccolta location del Memo, che il live prende una forma quasi intima. Van De Sfroos, infatti, si racconta ai suoi fan, aprendosi a una sorta di confessione sugli stati d’animo che hanno portato al risultato finale: sofferenza, tristezza, ricordi, ma anche voglia di risollevarsi ed entusiasmo.
“Un disco non nasce in un colpo solo, perché non è una canzone sola – racconta l’autore. – Non è soltanto un supporto; in realtà è un potentissimo esorcismo nel quale tu fai un rito vero e proprio per cercarti, ma soprattutto per perderti laddove ti fai paura. Quindi è molto facile trovarsi a scrivere canzoni che arriverai a capire solo dopo averle ascoltate più volte, anche se le hai scritte tu, perché soltanto dopo cominci ad analizzarti nel subconscio, a psicanalizzarti”.
Il titolo fa riferimento all’espressione “andare in goga e magoga”, ossia “andare in un paese molto lontano”. Tale modo di dire deriva dal mito di Gog e Magog citato nella Bibbia (Apocalisse di Giovanni), ma l’idea, più banalmente, si è sviluppata nel sentire delle affermazioni da bar di paese dove il “goga e magoga” può essere riassunto col “fare e disfare”.
Tra un brano e l’altro dell’album – su tutti Ki, El calderon de la stria, Infermiera e, soprattutto, la celeberrima Yanez – l’artista lombardo si lascia andare a qualche riflessione: “Tutti hanno bisogno di una speranza – spiega Van De Sfroos. – Tutti danzano dentro questo soffio di vento che se lo accetti è una danza, se lo subisci può sembrare una tortura. Ed è incredibile perché, nonostante tutto, continuiamo a chiamarla vita”.
Il cantautore definisce questo suo ultimo lavoro un disco “bipolare”: “Lo specchio esatto del tempo che stiamo vivendo di per sé è bipolare. Il disco può diventare un metodo per alleviare i dolori. Il pubblico può diventare il dottore. Non devi però sbagliare le dosi, non devi ribaltare tutto addosso alla gente pensando che ti salverà; devi misurarti con i consigli o le proposte fatte dal pubblico, che non è semplicemente un insieme di teste sotto al palco”. E aggiunge: “Ognuno ha una storia e ognuno percepirà quello che tu racconti”. Allo stesso tempo però ammette: “Questo è l’album più ricco d’amore che abbia mai fatto perché si aggrappa talmente al tentativo dell’antidoto, a queste vie non visibili, da andare addirittura a contemplare la consapevolezza e la serenità di quelli che ce l’hanno fatta a stare in equilibrio senza essere degli illuminati, ma essendo umili e soddisfatti di quello che hanno compiuto nella loro vita”. Nelle tematiche del disco risaltano molti parallelismi tra pazzia e guerra, riferimenti a Jethro Tull e Pink Floyd chiaramente sbandierati dallo stesso Van De Sfroos.
I tanti giovani presenti alla serata intonano i brani del cantautore in dialetto: ecco perché a Van De Sfroos va attribuito il merito di aver colmato un gap generazionale, unendo la cultura e le tradizioni popolari del passato con una buona dose di musicalità nel presente.