È membro di uno dei gruppi rock più popolari del pianeta, ma non ha perso un briciolo della sua affabilità. Stone Gossard è il chitarrista dei Pearl Jam, l’autore delle musiche di Alive e Daughter, l’anima ambientalista della formazione. Ma è anche il chitarrista e fondatore dei Brad, la band che guida dal 1992 col cantante Shawn Smith (Satchel, Pigeonhed) e il batterista Regan Hagar (Malfunkshun, Satchel). L’attuale bassista è Keith Lowe.
Dopo avere pubblicato nel 2012 il quinto album in studio United We Stand, i Brad arrivano per la prima volta in Europa. Sono previste due date italiane: il 23 febbraio ai Magazzini Generali di Milano e il 24 al Viper di Firenze (per informazioni, www.livenation.it). Vent’anni fa usciva il loro esordio Shame dove rock e soul trovavano un originale punto d’incontro nel timbro vulnerabile della voce di Smith.
In questa intervista Gossard invita i fan italiani a inviargli richieste, spiega il carattere ludico del fare musica, racconta a che punto è il nuovo album dei Pearl Jam. È solo un estratto di una lunga chiacchierata che uscirà sul numero di febbraio di JAM.
Fra i Pearl Jam e il nostro Paese c’è un rapporto speciale. E i Brad? Suonerete qualcosa di strano per noi? Cover o rarità?
«Abbiamo in serbo un paio di canzoni speciali e tre o quattro cover fra cui scegliere. Aspettatevi molti pezzi dal primo e dal secondo disco, e ovviamente da United We Stand. E se volete ascoltare qualcosa in particolare, scriveteci a [email protected] e fateci sapere quali canzoni volete in scaletta. Cercheremo di accontentarvi».
Il primo tour dei Brad risale al 1997. Senti di essere migliorato come musicista da allora?
«Non in modo evidente. Non è che abbia preso lezioni, però suono la chitarra da più tempo, conosco meglio lo strumento, sul palco mi sento più sicuro. Ho una coscienza maggiore di chi sono. Suono in modo più rilassato e sono un chitarrista solista migliore. È un linguaggio che capisco meglio, anche se non sarei mai in grado di ricreare gli assoli che facevo un tempo. Erano improvvisati: cercare di replicarli nota per nota sarebbe ridicolo».
Dopo tanti anni di carriera ti chiedi mai: sono un musicista ancora rilevante? Ti capita di domandarti: come faccio a scrivere e suonare musica all’altezza di quella di quindici o vent’anni fa?
«La cosa non mi preoccupa. Non ragiono in questi termini. Preferisco dedicarmi a progetti nuovi. Quando scrivo una canzone incespico e faccio errori, e nel processo mi imbatto in frammenti musicali interessanti. Li esploro e cerco di capire se possono dar vita a una canzone. Suono chitarra e batteria, scrivo testi, gioco con la musica come un bimbo di 8 anni. C’è sempre una scoperta eccitante da fare. E non mi debbo preoccupare del risultato perché ho la certezza che mi rappresenterà, che rifletterà il modo in cui funziona il mio cervello».
Sai che la musica che scaturirà sarà fedele alla tua personalità…
«Esatto. Mi piace il fatto che, pur non sapendo razionalmente quel che sto facendo, alla fine emerge qualcosa di buono. Quando scrivo mi sento come un pittore che distribuisce macchie di vernice sulla tela senza ragionarci su, in modo istintivo, finché non vede emergere qualcosa. A quel punto prende quel qualcosa, ne rimarca il carattere, lo potenzia, lo rende coerente. Per come la vedo io, fare musica è un’attività semplice, dai tratti infantili. Ecco perché quando fai musica non puoi perdere».
Se fare musica è un’attività ludica, vuol dire che non ha niente a che fare con l’ambizione? Parlo dell’ambizione di parlare a un pubblico sempre più vasto, ma anche di fare dischi che la gente ricorderà fra trenta o quarant’anni…
«Quel genere di pensiero non è salutare. Se ti passa per la testa, rischia di inibire la creazione».
Una delle tue ultime frasi contenute nel libro Pearl Jam Twenty è: «Penso che stiamo vivendo una seconda giovinezza». Ti senti davvero così?
«Stiamo facendo un nuovo disco. Ci siamo riuniti e ci stiamo aprendo l’uno con l’altro: è sempre eccitante quando accade. Sono fortunato a fare parte di questa band».
Eddie Vedder ha detto che siete a metà lavoro…
«Più o meno è così. Abbiamo pronte cinque canzoni. Ne prepareremo altre nei prossimi tre, quattro mesi. E chissà che ora dell’estate il disco non sia finito».
Come suonerà? O come vorresti che suonasse?
«Stiamo in uno stadio troppo arretrato per ipotizzarlo. Non c’è ancora un’idea di album su cui discutere, le speculazioni non sarebbero d’aiuto. Non ci voglio pensare: prima lo voglio fare. Ovviamente spero che sarà un gran disco. Mi auguro che suoni fresco alle orecchie della gente. Interessante. Diverso dal solito. Sono qualità intangibili: sai di averle catturate solo dopo che ci sei riuscito».
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