Chris Cornell e Ian Astbury. L’uno il memorabile messia del suono di Seattle nell’epica Jesus Christ Pose, l’altro il sacerdote post punk dei Cult e reincarnazione (riuscitissima) di Jim Morrison nei Doors. Per natura non è mia abitudine guardarmi indietro; nel senso, ritengo che gli articoli scritti e le interviste fatte siano come i bambini: non ti appartengono e, una volta che li metti al mondo, devi lasciarli liberi di fare il loro percorso. Però nell’anno appena trascorso (il 2012, ebbene sì, siamo sopravvissuti ancora una volta all’Apocalisse) è stato foriero di questi due incontri speciali non tanto per il loro “effetto Amarcord”, quanto per il valore umano che hanno rivelato i personaggi in questione. Non solo icone rock dionisiache e sessuali dunque (giuro che questo pezzo non è scritto sotto l’influsso di un alterato picco ormonale, troppo anziana per questo), ma persone di valore, che hanno saputo riconvertire i loro percorsi intimi nelle aree d’ombra dell’esistenza, in una sentenza di crescita umana.
Chris dal vivo sembra un ragazzino. È del 1964, ma mette almeno dieci anni di meno. Nasconde i memorabili occhi celesti dietro un enorme paio di occhiali scuri, quasi a volere deviare l’attenzione dall’azzurro del cielo verso gli abissi della vita che lui ha toccato nella sua errabonda inquietudine. Dice di non essersi mai sentito a suo agio nelle vesti del famoso cantante dei Soundgarden e di avere una natura intimista e timida. Da qui il suo bisogno, ad un certo punto, di lasciare i fasti della band più hard rock del grunge per tentare la carriera solista.
Dal punto di vista commerciale i sui dischi personali sono stati un flop e hanno deluso i fan più assidui per deviare il gusto verso un pubblico che io durante un suo concerto ho definito “quello di Biagio Antonacci” (pieno di femmine modello “segretaria in calore”).
Cornell dal vivo sembra voler fare di tutto per nascondere la sua bellezza. Si stira la chioma selvaggia in un codino tirato sul capo, parla piano e in modo sommesso, e diventa loquace solamente quando ci tiene a rimarcare il fatto che il ruolo di Cristo del rock gli è sempre andato stretto, e che per questo a un certo punto per salvarsi psicologicamente ha dovuto rinnegarlo. Oppure si illumina quando parla della sua nuova famiglia (quella vecchia, compresa la figlia avuta da Susan Silver, ex manager dei Soundgarden e degli Alice In Chains, pare averla totalmente dimenticata) e dei due bambini avuti dalla seconda moglie. Un family man fatto e compiuto quindi, altro che dio degli eccessi.
Ian invece è ancora più interessante, perché unisce la forza della rockstar decaduta e resuscitata a quella del ricercatore esistenziale. Parla con cognizione di causa di politica e buddismo, sciamanesimo e musica, Inghilterra tatcheriana e America obamiana, dei Doors e dei suoi pellegrinaggi sonici nelle scene underground del pianeta (tra tutte, quella con la band sludge-stoner rock giapponese dei Boris). Ama il desert rock di Joshua Tree e non a caso, in un concerto dei Cult al famoso Paradiso di Amsterdam, ha voluto i Masters Of Reality come supporter omaggiando il suo amico Chris Goss (produttore del suo disco solista, nonché anche dell’ultimo album della band inglese) con un mazzo di fiori, definendolo come «suo guru e unico vero ispiratore».
Astbury ha una personalità complessa e parla con una voce nasale e nervosa, possiede il pungente senso dell’ironia inglese e non esita a mortificare se ritiene di essere associato ai soliti stereotipi. Se capisce (arguto com’è) che non gli chiedi di recitare il solito ruolo della rockstar sopra le righe e superi la sua naturale diffidenza, allora diventa un uomo dall’eloquio forbito e squisito, che sa inondarti di una cultura non superficiale maturata in una vita colma di alti e bassi non vissuta per interposta persona. «Sono morto metaforicamente cento volte» dice la fenice «e ogni volta sono risorto trasformandomi, perché la vita, come dice Gothama Budhha, è frutto dell’impermanenza». E intanto ti racconta di Manzarek e della sua passione per gli indiani americani, del suo impegno per la difesa dei diritti umani in Tibet e del Dalai Lama, della sua passione per i dischi della Southern Lord (etichetta di metal estremo e sperimentale) e per la cinematografia e fotografia d’autore (sta collaborando a un film di un’amica regista sugli stupri perpetrati all’interno delle riserve indiane).
Poi ti parla della crisi esistenziale che lo portò qualche anno fa sull’orlo del suicidio: «Ero uscito da una relazione difficile, i miei figli erano distanti, ero in crisi artisticamente e il mio migliore amico si era ucciso. Passavo le giornate chiuso nella mia casa di New York e uscivo solamente quando era buio per frequentare le ultime lezioni di un centro yoga e per camminare tra le strade della megalopoli, dove i grattacieli erano diventati le mie montagne».
Anche Ian dice che il suo bisogno di imbruttirsi e la sua scostanza con i Cult erano dovuti alla necessità di uscire da un personaggio da cui si sentiva intrappolato e soffocato. Ora ha trovato un nuovo equilibrio e il recente matrimonio con la cantante australiana Aimee Nash l’ha reso di nuovo un uomo felice.
Tra gli umanoidi ci sono le rockstar e ci sono le persone. Spesso le prime fagocitano le seconde fino ad ammazzarle. Alcuni non ce l’hanno fatta a salvarsi e hanno ceduto ai propri demoni (vedi Jim Morrison, Kurt Cobain, Layne Staley, ma la lista è lunghissima); altri riescono a farcela riscoprendo nel baratro il valore delle piccole cose, degli affetti veri e dell’integrità creativa. Siate felici di essere persone dalla vita normale. Non bisogna per forza cadere dalla stelle alle stalle per comprendere che la bellezza della nostra esistenza va cercata in quello che abbiamo qui, ora, proprio sotto il nostro naso.