19/12/2025

Marco Ligabue, “M.A.P.S. – Manuale Alternativo Per Sentire”

Marco Ligabue ci presenta il suo nuovo album che arriva a cinque anni di distanza dal suo disco precedente

 

M.A.P.S. – Manuale Alternativo Per Sentire, il nuovo lavoro in studio di Marco Ligabue, è uno di quei dischi che arrivano mentre stai parlando d’altro, mentre pensi di conoscerne già la direzione, e invece ti costringono a fermarti. Ad ascoltare. Questo album nasce da un tempo lungo, da canzoni scritte una alla volta, provate sul palco prima ancora che in studio, portate in giro e lasciate maturare. Non c’è fretta, non c’è l’urgenza di stare dentro un formato: c’è il bisogno di dire qualcosa che abbia senso oggi, in un momento in cui la musica scorre veloce ma si ascolta poco.

Presentato in anteprima all’Hard Rock Cafe di Milano il 18 novembre, M.A.P.S. di Marco Ligabue arriva a cinque anni dall’ultimo disco e si muove come una mappa senza percorso obbligato. Da un lato gli elementi primordiali – fuoco, terra, aria e acqua – che raccontano il mondo fuori. Dall’altro un’esplorazione più intima, fatta di memoria, notti, silenzi e domande lasciate aperte.

Ne abbiamo parlato proprio con Marco qualche giorno fa.

 

Partiamo dal titolo: M.A.P.S. è un acronimo ma anche una parola molto evocativa.
Maps è proprio inteso come “mappa”, come viaggio. Questo disco fa due tipi di viaggio: uno nella geografia esterna, attraverso i quattro elementi, e uno nella geografia interiore. Ho sempre pensato questo album come un percorso, una mappa.
Mi piaceva anche l’idea dell’acronimo “Manuale Alternativo Per Sentire, perché oggi ci sono istruzioni e tutorial per tutto. Questo invece è un manuale che non spiega cosa fare, ma ti dice: fermati e senti. Prenditi il tempo di ascoltare quello che succede dentro questo disco.

 

In effetti non dà risposte, ma indicazioni.
Esatto. A me piace stimolare, accendere piccole scintille. Ogni canzone può suggerire una destinazione, una situazione fisica o mentale. Sono input, non soluzioni. Poi ognuno fa il suo percorso.

 

C’è anche un’idea molto forte di condivisione.
Sì, perché quando decidi di pubblicare un disco è perché vuoi condividere. Scrivo canzoni su cose che mi colpiscono, su riflessioni personali e spero che non rimangano isolate, ma che incontrino le riflessioni di chi ascolta. È come un viaggio che continua sulle strade di ognuno.

 

Il disco è diviso chiaramente in due lati.
Tutto è partito come uno stimolo. Mi sono detto: provo a scrivere una canzone per ognuno dei quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Ne sono uscite Anima in fiamme, Toc toc ecologico, Il vento dell’estate e Quello che c’è.
Quando le ho finite ho pensato: questo è un lato intero di un disco, c’è un concetto forte.

 

E da lì il passo verso il lato B…
Esatto. Se da un lato raccontavo la geografia che ci ha creati, dall’altro volevo scavare dentro di me. Nel lato B ho scritto cinque brani che fanno un percorso interiore, andando a rispolverare zone nascoste, corde che avevano bisogno di essere toccate di nuovo.

 

Com’è stato aprire quei cassetti?
È stato bello. In Le canzoni inglesi, per esempio, ho voluto sbloccare i ricordi del mio primo viaggio a Londra, quando ero ragazzo. Era un mondo in cui tutto sembrava possibile. Oggi forse non lo è più, anche per quello che ci succede intorno e volevo capire se quella sensazione esiste ancora.

 

Sempre tutto bene affronta invece un altro tipo di blocco.
Sì, perché ci diciamo sempre “tutto bene” e poi non ci diciamo niente. Non ci confidiamo davvero. Con quella canzone ho voluto andare oltre quel velo che mettiamo davanti quando incontriamo gli altri.

 

L’ultima notte ha un’atmosfera diversa.
La notte è uno degli ultimi luoghi rimasti dove possiamo fermarci davvero. Amplifica l’amicizia, la condivisione, la magia. Con quel brano ho voluto rimettere al centro quel momento, quel tempo sospeso che stiamo un po’ perdendo.

 

Nel tuo modo di scrivere si sente molto la scuola cantautorale.
Io sono cresciuto con i cantautori italiani. Il mio primo “manuale” non era un prontuario di accordi, ma De Gregori, Fossati, Venditti, Rino Gaetano, Lucio Dalla. Lì ho capito la potenza della parola in una canzone. È un seme che mi porto ancora dentro.

 

C’è però anche un forte lavoro sul suono.
Sì, questo disco è nato canzone per canzone. Tutti i brani partono da voce e chitarra, poi vado in studio con la band e voglio cogliere la prima scintilla, quella umana. Non mando mai i brani prima ai musicisti: voglio vivere l’urgenza del momento.

 

Un approccio che poi funziona dal vivo.
Assolutamente. Quest’anno ho superato le 100 date. Facciamo due ore di concerto senza basi, senza sequenze: tutto suonato. È impegnativo, ma vedere ragazzi di 15 anni che restano colpiti da un assolo o da un intro di batteria ti fa capire che qualcosa arriva.

 

Chiudiamo: cosa significa oggi avere questo disco tra le mani?
Sono ancora un bambino davanti a un cesto di caramelle. Sono cresciuto andando nei negozi di dischi, aprire un vinile per me era entrare in un mondo nuovo.
Quando ieri ho preso in mano M.A.P.S. mi sono emozionato come quando comprai Born in the U.S.A. o The Joshua Tree. Oggi un disco deve avere un senso profondo per uscire. E questo, per me, ce l’ha.

 

Marco Ligabue - M.A.P.S. - Manuale Alternativo Per Sentire

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