La scorsa notte ci ha lasciato Leonard Cohen, poeta e cantore tra i più influenti del secolo scorso. Insieme a Dylan ha probabilmente costituito il maggior punto di riferimento per quella miriade di songwriter che si sono più o meno imposti nel mondo della musica d’autore americana e non solo.
Qualche mese fa era scomparsa la sua prima musa, Marianne Ihlen, che Cohen aveva incontrato nel 1966 sull’isola greca di Idra, dopo avere terminato il suo primo romanzo, The Favorite Game, e in una malinconica, quanto straziante lettera post mortem le aveva annunciato che presto l’avrebbe raggiunta. Così è stato.
Con lui scompare un vero baluardo di quella che un tempo si chiamava un po’ pomposamente “controcultura”, per il modo diverso di concepire non solo la società e la politica, ma anche l’amore e i problemi esistenziali che sono legati alla vita. Promotore di un modo schietto di intendere l’esistenza in tutti i suoi aspetti più intimi legati all’amore e al sesso, cercava una difficile coerenza spazzando via, senza pudici veli, le ipocrisie di una predicazione religiosa retriva e nello stesso tempo ricercando con ostinazione risposte al suo bisogno di spiritualità.
Il sesso e la mistica, questi due aspetti apparentemente antitetici, furono l’eterno dilemma di Cohen che spese la sua vita nel tentativo di conciliarli. Non gli riusciva di accettare che un dono così grande come il sesso, regalato all’uomo, direttamente dalla nascita dallo stesso Dio, non potesse rientrare, come aspetto primario, in quella sfera di amore universale destinato a trascendere nel divino. Finì con convincersi che il sesso era una delle tante possibilità di concepire l’Hallelujah e così scrisse la canzone omonima che tutti conosciamo e che ancora oggi vanta il maggiore numero di cover che siano mai state fatte per un brano musicale.
Le sue canzoni hanno esplorato con lucida sincerità vette e miserie dell’animo umano, ma nei loro versi si nascondeva spesso più di una verità interpretativa. Era necessario entrare in possesso di chiavi di lettura che decodificassero la simbologia nascosta nella sua scrittura e per questo era fondamentale risalire alla Bibbia e al suo essere ebreo.
Cohen ha continuato a stupirci con le sue canzoni che venivano cantate con voce sempre più roca, al limite della narrazione, trasformandosi in poesie. Entrare nello spirito di quei testi, in tutte le loro sfumature, era come perdersi in una meditazione profonda che dava sollievo.
Nei suoi ultimi lavori, in particolare in Old Ideas e nel recentissimo You Want It Darker, si era acuito anche l’aspetto etico della vita. Cohen non poteva ammettere che un Dio di misericordia potesse permettere tutte le brutture che accadono nel mondo, ma poi si arrendeva di fronte all’imperscrutabilità del disegno divino. “If you want it darker, we kill the flame” e cioè “Se vuoi il mondo più buio allora noi spegneremo la luce” – dice nel suo ultimo lavoro -. E’ stato questo l’ultimo atto di sottomissione a una ennesima inspiegabile manifestazione della volontà divina. L’ultima ostinata, quanto difficile testimonianza di fede.
Qualche mese fa era scomparsa la sua prima musa, Marianne Ihlen, che Cohen aveva incontrato nel 1966 sull’isola greca di Idra, dopo avere terminato il suo primo romanzo, The Favorite Game, e in una malinconica, quanto straziante lettera post mortem le aveva annunciato che presto l’avrebbe raggiunta. Così è stato.
Con lui scompare un vero baluardo di quella che un tempo si chiamava un po’ pomposamente “controcultura”, per il modo diverso di concepire non solo la società e la politica, ma anche l’amore e i problemi esistenziali che sono legati alla vita. Promotore di un modo schietto di intendere l’esistenza in tutti i suoi aspetti più intimi legati all’amore e al sesso, cercava una difficile coerenza spazzando via, senza pudici veli, le ipocrisie di una predicazione religiosa retriva e nello stesso tempo ricercando con ostinazione risposte al suo bisogno di spiritualità.
Il sesso e la mistica, questi due aspetti apparentemente antitetici, furono l’eterno dilemma di Cohen che spese la sua vita nel tentativo di conciliarli. Non gli riusciva di accettare che un dono così grande come il sesso, regalato all’uomo, direttamente dalla nascita dallo stesso Dio, non potesse rientrare, come aspetto primario, in quella sfera di amore universale destinato a trascendere nel divino. Finì con convincersi che il sesso era una delle tante possibilità di concepire l’Hallelujah e così scrisse la canzone omonima che tutti conosciamo e che ancora oggi vanta il maggiore numero di cover che siano mai state fatte per un brano musicale.
Le sue canzoni hanno esplorato con lucida sincerità vette e miserie dell’animo umano, ma nei loro versi si nascondeva spesso più di una verità interpretativa. Era necessario entrare in possesso di chiavi di lettura che decodificassero la simbologia nascosta nella sua scrittura e per questo era fondamentale risalire alla Bibbia e al suo essere ebreo.
Cohen ha continuato a stupirci con le sue canzoni che venivano cantate con voce sempre più roca, al limite della narrazione, trasformandosi in poesie. Entrare nello spirito di quei testi, in tutte le loro sfumature, era come perdersi in una meditazione profonda che dava sollievo.
Nei suoi ultimi lavori, in particolare in Old Ideas e nel recentissimo You Want It Darker, si era acuito anche l’aspetto etico della vita. Cohen non poteva ammettere che un Dio di misericordia potesse permettere tutte le brutture che accadono nel mondo, ma poi si arrendeva di fronte all’imperscrutabilità del disegno divino. “If you want it darker, we kill the flame” e cioè “Se vuoi il mondo più buio allora noi spegneremo la luce” – dice nel suo ultimo lavoro -. E’ stato questo l’ultimo atto di sottomissione a una ennesima inspiegabile manifestazione della volontà divina. L’ultima ostinata, quanto difficile testimonianza di fede.