31/10/2013

Arcade Fire

I canadesi de-intellettualizzano la loro musica facendole fare un bagno nel Mar dei Caraibi

La sento solo io questa voglia di leggerezza? Questi ritmi ballabili, questi coretti evanescenti? Con gli occhi del mondo rock puntati addosso, gli Arcade Fire scartano di lato e se ne escono con un disco doppio e lungo, pieno zeppo di stimoli, non sempre a fuoco. Chiamano Markus Dravs e soprattutto James Murphy (LCD Soundsystem) e sfidano la propria reputazione di band seriosa. Agghindano la musica di sintetizzatori che neanche nel 1981 e scendono in pista. Però sono gli Arcade Fire, non i Daft Punk. Perciò fanno una specie di disco music da ascoltare più che da ballare. Sono ancora un gruppo rock? Forse non è la domanda giusta, in tempi di ibridazioni come questi. Di certo Win Butler ci scherza nell’introduzione di Normal Person. Mentre la band attacca il pezzo più marcatamente rock dell’album, lui borbotta annoiato: «Ti piace il rock’n’roll? Perché non so se a me piace…».

Gli Arcade Fire hanno cercato di de-intellettualizzare la propria musica immergendola nel Mar dei Caraibi. Carico com’è di eco e riverbero, Reflektor sembra la versione dub del disco che il gruppo avrebbe potuto fare tre anni fa. Per non dire delle tracce in cui emergono richiami alla musica di Haiti, retaggio culturale di Régine Chassagne e frutto dei viaggi compiuti sull’isola. Ma gli Arcade Fire vengono da Montreal, non da Port-au-Prince, e così la notevole Here Comes The Night Time – pezzo numero quattro, il primo davvero interessante – parte in quarta con una festa di percussioni e s’inabissa in un beat che al confronto sembra quasi catatonico. «Arriva la sera», canta sempre più accaldato Butler mentre osserva il tramonto. Se è l’inizio di una serata di Carnevale, perché quel sintetizzatore emette note da incubo? Il paradiso è chiuso da un cancello che non ti fanno oltrepassare e la canzone è costruita per fartelo capire. Anzi, per fartelo sentire.

Calore e freddezza, strade caraibiche e club occidentali: è un’ambivalenza che rende Reflektor stranamente interessante, eppure una maggiore sintesi e un po’ più di slancio l’avrebbero reso migliore. La maggior parte delle canzoni dura sei minuti, per un totale di un’ora e un quarto di musica: chi lo vuole un party così sfiancante? È come se la vitalità fosse soffocata da un velo, come se la voglia di dire tante cose avesse offuscato la capacità di dire solo quelle giuste. E così per una Normal Person epica e sexy c’è una Porno che trascina il suo synth pop per sei lunghi minuti, per una Awful Sound (Oh Eurydice) dall’anima beatlesiana c’è Reflektor, una caramella disco-rock che non giustifica i suoi sette minuti e mezzo di durata, e non conta granché la presenza di David Bowie. Varietà, abbondanza di stimoli e sorprese arricchiscono l’album che mette assieme funk e new wave, riverberi dub e chitarre twangy. Com’è che allora il disco non somiglia a una festa caotica, ma un freddo magazzino di stili?

Per descrivere lo slancio verso l’elettronica e la manipolazione delle strutture della canzone qualcuno ha scomodato Remain In Light e Achtung Baby, con gli Arcade Fire nei panni dei Talking Heads e degli U2, e Murphy nel ruolo di Brian Eno. No, Reflektor non ha la carica rivoluzionaria di quei dischi. E soprattutto non ne possiede lo slancio vitale. Ha più immaginazione che passione, più testa che viscere. E in un certo senso va bene così: questi sono gli Arcade Fire di sempre riflessi negli specchi di una mirror ball. Perciò continuo a pensare a quel passaggio: «Ti piace il rock’n’roll? Perché non so se a me piace…». Cinquantasei anni fa Chuck Berry diceva che «dev’essere rock’n’roll se vuoi danzare con me». Anche gli Arcade Fire vi invitano a ballare. Solo che non c’è un nome per la musica che fanno.

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