Estra, “Gli Anni Venti” – Intervista a Giulio Casale
“Il nostro è un invito a proporsi come reazione rispetto a una crisi culturale che mi sembra quantomai evidente”
Gli Anni Venti degli Estra arrivano poco più di vent’anni dopo l’ultimo album della storica band trevigiana e raccontano la quotidianità che stiamo vivendo con l’inconfondibile rock del gruppo nel quale si incastrano testi molto diretti. “Avevamo sempre detto che saremmo tornati per dire qualcosa, non per celebrarci o, peggio, per nostalgia” tiene subito a precisare infatti il frontman Giulio Casale, intervistato per questo gradito ritorno, dopo averlo apprezzato nel corso degli anni per il suo percorso solista, durante il quale non si è fatto mancare spettacoli e concerti per ricordare e riproporre Giorgio Gaber, Fabrizio De André e non solo.
Con questa reunion, già anticipata nel corso degli anni da alcuni concerti, gli Estra non si limitano semplicemente a dire qualcosa, ma sbattono in faccia all’ascoltatore la realtà in cui vive, soffermandosi sulle storture di questo periodo con la voglia di alimentare un dibattito, quello che si è perso a causa della frenesia della società odierna, nutrita giornalmente dalla rapidità dell'”usa e getta” in chiave social e non solo. Da qui deriva anche la progressiva perdita di umanità e il tentativo di riacquisire l’empatia e il senso della direzione.
Si comincia con la voce recitante di Marco Paolini che si immedesima in una donna, La Signora Jones, richiamo evidente al Signor Jones, brano con cui si apriva Nordest Cowboys, storico album degli Estra uscito nel 1999: la signora contatta una radio, denunciando violenze di alcuni giovani che si erano giustificati dicendo che “era per ridere, una cosa da divertirsi, uno scherzo”. L’atmosfera agghiacciante si fa presto cruda e trova sempre un solido contrappeso nel sound deciso di Giulio “Estremo” Casale (voce, chitarre), Eddy Bassan (basso, cori), Nicola “Accio” Ghedin (batteria, percussioni) e Abe Salvadori (chitarre, tastiere, cori). I quattro descrivono il vuoto desolante della nostra epoca riscontrato in primis dai giovani o comunque da alcuni di loro in Fluida Lol e nella title-track, Gli Anni Venti, descrivono un periodo che rievoca pericolosamente il corrispettivo del secolo scorso. Ci si sofferma anche su questi discorsi, ma si va anche oltre con lo stesso Giulio Casale e si parla dunque con lui di questo nuovo album degli Estra co-prodotto dalla band e da Giovanni Ferrario, e realizzato grazie a un crowdfunding con cui sono stati raccolti circa 33.000 euro in tre giorni.
Gli Anni Venti è un album di inediti in tutti i sensi perché avete scritto questi brani negli ultimi anni senza ripescare eventuali demo o “appunti” dal passato, vero?
Eh sì, l’hai detto perfettamente. Noi tra l’altro negli anni siamo stati più volte sollecitati a questo ritorno e avevamo sempre detto che saremmo tornati per dire qualcosa, non per celebrarci o, peggio, per nostalgia. La nostalgia è un sentimento che non ci appartiene. Per cui ci siamo messi lì e abbiamo cominciato a pensare al nuovo album nel 2021 quando eravamo ancora in piene restrizioni per la pandemia. Abbiamo scritto davvero tanto e poi alla fine abbiamo scelto questo percorso che dal mio punto di vista è un percorso unitario, un concept album.
Avete realizzato questo lavoro grazie a una riuscitissima campagna di crowdfunding. Vi aspettavate tutta questa stima che avete ricevuto dal pubblico?
Così tanto no. Siamo stati veramente sommersi anche di affetto e di fiducia, no? Perché poi era come sottoscrivere una cosa di cui non sai nulla: nessuno sapeva cosa avremmo composto o prodotto e quindi l’affetto è stato clamoroso e la spinta è stata fortissima perché ci è arrivata proprio mentre eravamo in studio. È stato un volano, un carburante pazzesco…
Più che soluzioni cercate di alimentare discussioni con questo nuovo album.
Guarda, dieci anni fa facemmo un piccolo giro d’Italia e la cosa più bella che ci veniva detta era che anche le canzoni degli anni ’90 sembravano attuali in quel momento lì, insomma vent’anni dopo, ed ecco il venti che torna. La cosa giusta secondo noi adesso è riuscire a inchiodare un po’ il nostro tempo alle sue miserie, alle sue contraddizioni, e poi, sempre per me e per noi, è giusto non certo fare la parte di quelli che dicono: “Va tutto male! È tutto finito!” Anzi… il nostro è un invito a proporsi come reazione rispetto a una crisi culturale che mi sembra quantomai evidente.
Rimanendo su questo discorso ne Gli Anni Venti parlate di temi sociali, civili… avete fatto insomma “un disco politico” quasi nel senso primordiale del termine, intendendo un qualcosa che riguarda tutti, il bene comune, “l’arte di vivere assieme” se ti va bene questa definizione di Pericle nell’antica Grecia.
Sì, apprezzo molto, anche perché quando si dice “politico” uno immagina subito degli slogan, mentre quella roba lì non ci è mai appartenuta, e questo tra l’altro ha reso gli Estra e Giulio Casale anche di difficile lettura a volte, ma rivendichiamo questo approccio. Questa volta credo però che i temi siano ben evidenti, quindi siamo anche molto contenti perché stanno prendendo sul serio il disco. Ci viene riconosciuto questo riuscire a raccontare il nostro tempo.
L’album si apre e si chiude con due voci recitanti, quelle di Marco Paolini e Pierpaolo Capovilla.
Sì, quello di Marco Paolini è un testo mio e lui ci ha fatto un grande regalo che ci ha reso davvero felici, immedesimandosi addirittura ne La signora Jones, non il Signore… Marco è più grande di noi ed è un nostro punto di riferimento.
Con Capovilla ovviamente ci sono delle affinità evidenti dal punto di vista musicale e si può dire anche dal punto di vista dell’analisi sociale.
Sono dei featuring che chiaramente non hanno nessuno scopo commerciale, c’è solo grande affinità con entrambi e questo ci piace molto.
Per descrivere Gli Anni Venti parlate anche tanto dei giovani.
Certo, nel disco partiamo dai ragazzi. Quando saltano le categorie di bene e male, quando salta tutto il ventaglio dei sentimenti, quando non si sa più distinguere tra i sentimenti, allora c’è un problema culturale gigantesco di cui noi genitori siamo sicuramente i primi responsabili, oltre al sistema educativo in toto. L’album parte proprio da quella foto lì e quindi da Marco Paolini e poi c’è la prima canzone che è Fluida Lol, brano su una diciottenne che rifiuta e rinuncia all’identità sessuale e che trova tutto il nostro mondo adulto piuttosto vuoto e sconfortante. Io credo che dovremmo partire da lì oggi, appunto, dai grandi rifiuti e dai grandi dissensi dei nostri figli o di chi è molto giovane in questo momento, perché la loro opposizione alla nostra cultura ci deve assolutamente interrogare.
Non credo sia facile rispondere a questa domanda, ma con il vostro album siete molto diretti e invitate molto a riflettere su questi aspetti: come siamo arrivati secondo te o secondo voi a tutto questo? C’entrano anche i social?
Non è facile rispondere, però la rete è un simbolo devastante della nostra epoca. Tra l’altro non si è ancora indagato su quanto i social abbiano nutrito in maniera ipertrofica i nostri ego. C’è una quantità di cose in ballo in questo momento storico che forse appunto si scioglieranno piano piano. In questo momento c’è anche un bombardamento di notizie, tutti che ricevono le notizie “customizzate”… poi è come se ognuno si sentisse al centro del mondo e non è così. Quando parlavi prima di bene comune, ecco, a quello dovremmo tornare, invece rimane ormai solo il credo dell’individuo, solo l’ego, solo il suo bisogno di affermazione a tutti i costi e questa è proprio una roba bruttissima. Io continuo a dire in questi giorni: bisognerebbe raccontare ai nostri figli il valore della sconfitta, quella è una rivoluzione culturale, perché poi si parla del fascismo, ma il fascismo molto prima che politico è nella brutalità, è nell’autoritarismo, è nel machismo… cioè il fascismo nasce nei piccoli gesti individuali molto prima che nella politica, no? Nasce molto prima che nel bisogno di una società ordinata e basata su valori indiscutibili. Beh, vedi, il discorso sarebbe lunghissimo.
È un discorso che nasce da prima dell’attualità o comunque da prima de Gli Anni Venti?
C’è una mia canzone, Virus A, uscita nell’album Dalla parte del torto (del 2012, ndr), anche quello prodotto da Giovanni Ferrario tra l’altro, in cui dicevo: la malattia che sta girando in tutta Europa è la nuova destra estrema, quindi i neonazismi e i neofascismi, per cui li sento arrivare da tanto. Adesso è evidentissimo e questo ci deve interrogare, perché se ritornano nazionalismi, protezionismi, chiusure, razzismi, discriminazioni su tutta la linea e su ogni persona che non rientri nel normotipo è un problema. Ecco, tutto questo l’algoritmo non lo sa e per esempio tutto ciò che non è medio e che non è normato e normale viene espulso dalla comunicazione e potenzialmente dalla società. Una politica che si fa carico di questo è la negazione di tutti i valori libertari che abbiamo assaporato nel Novecento. Noi della band quando è caduto il Muro di Berlino eravamo appena maggiorenni ed eravamo convinti che il mondo avrebbe sempre guadagnato in quota di libertà e di tolleranza, di inclusione ecc. Stiamo assistendo invece a tutto il contrario: le forze politiche di tutto il mondo dicono che è legittimo non salvare un uomo in mare o un immigrato e prendono i voti su questo… beh, è proprio la fine per esempio della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che tutti hanno firmato e tutti hanno sottoscritto. Mi sembra che dal punto di vista culturale il dibattito potrebbe essere potentissimo e invece non c’è.
Tornando al nuovo album degli Estra, il tema dei migranti di cui parlavi poco fa lo affrontate in Nessuno come noi, mentre a proposito di muri tra le suggestioni che fornite voi stessi ad ogni brano per Monumenti immaginari si legge, e ovviamente si può anche comprendere ascoltandolo, “tirando ideali ai muri”.
Sì, perché il disco ha anche dei momenti di apertura, non c’è solo l’analisi nera e del nero che avanza e che avvolge tutto, c’è anche la voglia di dire: “Beh, ma almeno a livello individuale, almeno tra noi possiamo ancora tirare degli ideali contro i muri”. Quindi c’è qualche ipotesi di cose belle in cui credere ancora nel nome delle quali affratellarsi: sarebbe questa l’idea.
A proposito sempre di muri, ce n’è anche uno in copertina.
Certo. Lì abbiamo voluto provare una sintesi un po’ à la Banksy, sempre partendo da figure molto giovani, molto all’inizio di un percorso che in questo momento probabilmente si trovano davanti un’idea di società piuttosto paralizzante. Il problema è cosa c’è dopo, per cui per questo motivo credo che dovremmo sentirci tutti molto chiamati a far sì che questa deriva non ci riporti esattamente agli orrori di un secolo fa, perché da certi punti di vista l’aria sembra proprio quella. Poi se ci mettiamo pure le guerre…
Parlando invece della musica e del vostro sound, quando siete tornati in studio avete lavorato com’eravate abituati a fare in precedenza o è cambiato qualcosa rispetto al passato?
Abbiamo fatto grandi prove, suonando poi dal vivo in studio tutti insieme con il contributo di Giovanni Ferrario e aggiungendo più o meno in pianta stabile delle tastiere che raramente facevano parte del sound degli Estra. Questa volta invece le abbiamo usate in maniera molto versatile, quindi con tanti suoni diversi dagli archi agli organi, tanto per dirne due, e questo ha aggiunto qualche bel colore sicuramente. Dopodiché due chitarre elettriche, basso e batteria rimane ovviamente il nostro approccio, però abbiamo lavorato tanto in fase di pre-produzione e quindi poi in studio siamo stati viceversa abbastanza veloci, perché le idee erano già abbastanza sviluppate.
A proposito di musica alternativa e sempre di reunion, di recente sono tornati ad esempio i La Crus, anche loro peraltro con un album nuovo, poi si sono riuniti anche i CCCP. C’è anche un ritorno di quella musica o di quelle sonorità?
Non so, ma secondo me quando hai delle cose nuove che sono belle da dire e, mi ripeto, quando non c’è solo la nostalgia, perché non si dovrebbe tornare? Tra l’altro parlo di nostalgia anche in una canzone del nuovo disco, Nel 2026, che è proprio rivolta a chi dice: “Dovremmo tornare lì!” Invece no, bisogna stare qui, nel tempo presente. Se non sono operazioni fini a se stesse il tornare può essere sempre una cosa bella, anche perché ognuno torna dopo una quantità di esperienze, di maturazioni della propria scrittura e del proprio modo di comporre, ma anche di realizzare le cose e a volte ci sono davvero esiti molto migliori di quelli di un tempo.