Francesco Cavestri, nuovo singolo con Willie Peyote e…
Abbiamo intervistato il giovane pianista jazz che tra un live e altro si sta dedicando alla scrittura del suo nuovo album
Tra i nuovi volti di riferimento del jazz italiano è impossibile non citare Francesco Cavestri, pianista e compositore classe 2003 che tra un palco e l’altro sta girando lo Stivale portando la sua musica.
Dopo l’uscita del suo ultimo disco IKI – Bellezza Ispiratrice, Francesco si è diviso tra concerti e momenti di divulgazione, durante i quali parla a platee di diverse età dei contatti tra i generi musicali che vanno costituendo il suo bagaglio artistico, dall’hip hop al jazz.
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui per sapere come sta vivendo questo momento della sua carriera e avere qualche piccola anticipazione sul futuro.
Di solito da cosa parti per scrivere la tua musica?
Anche stavolta sono partito dal suono, dalla musica, da ciò che sentivo nel momento in cui mi trovavo a creare. Tuttavia, mi piace sempre riservare un momento per individuare un concept, un significato, o una filosofia che possa fare da filo conduttore ai miei progetti. Ad esempio, dietro IKI – Bellezza Ispiratrice, l’album che ho pubblicato a gennaio, c’è un’ispirazione legata alla filosofia giapponese. Studiando e leggendo Kokoro, un libro del grande filosofo giapponese Natsume Sōseki della fine dell’Ottocento, ho trovato molti punti di contatto tra quel modo di pensare, quel rituale estetico, e la musica che stavo creando per l’album. Questo approccio è il mio modus operandi, e lo sto applicando anche adesso. La novità è che, per la prima volta nella mia carriera, le attività di tour, live e creazione di nuovi progetti procedono di pari passo. Sto scrivendo un nuovo album e lavorando su nuove tracce. Per esempio, una di queste è nata in collaborazione con Willie Peyote: l’abbiamo presentata il 31 ottobre al nostro concerto in Triennale a Milano. È un brano in cui canto anch’io e dove lui ha contribuito con una strofa, aggiungendo la sua voce a una parte del pezzo.
Com’è nata questa collaborazione con Willie Peyote?
L’ho conosciuto al festival di Paolo Fresu in Sardegna, dove era ospite di un concerto. Io ero lì con il mio live, che per ironia della sorte si chiamava Il jazz incontra l’hip hop. Willie Peyote, come sai, è uno degli esponenti principali dell’hip hop in Italia. Quando ci siamo incontrati, ci siamo messi a parlare, e mi ricordo di avergli fatto una domanda: “Cosa ci fai qua in un festival di jazz?” Lui mi rispose dicendo che “Il jazz e l’hip hop hanno tantissimi punti in comune, anzi, l’hip hop deve molto della sua nascita al jazz”. Mi aveva colpito molto questa risposta, soprattutto perché, come raccontavo spesso, avevo costruito gran parte della mia carriera sui legami tra questi due generi. Ho fatto tante lezioni concerto dal titolo Jazz / hip hop – due generi fratelli e il mio progetto Il jazz incontra l’hip hop, oltre al mio primo album Early 17, che era proprio costruito su questi legami.
Willie, con il suo percorso e i suoi risultati, ha dimostrato una particolare attenzione verso il jazz, e questo mi ha davvero sorpreso e affascinato. Quando poi è venuta fuori l’opportunità di fare un concerto insieme alla Triennale di Milano, l’abbiamo accolta con grande entusiasmo da entrambe le parti. È stata una bellissima occasione. Da lì è nato anche il brano che abbiamo scritto insieme: ho iniziato la composizione al pianoforte, come sempre, e poi l’ho prodotto, lavorando anche con l’elettronica al computer, sempre partendo dalla base musicale. Per il testo, ho collaborato con una cantante di nome Evra, che è anche autrice per Sugar. Le ho sottoposto la bozza, e le è piaciuta molto, tanto che ha deciso di registrare una strofa e la sua parte del brano. La canzone uscirà presto, e l’abbiamo presentata in anteprima alla Triennale.
Tutto questo è il risultato delle belle cose che accadono quando c’è una stima professionale che si trasforma in un rapporto personale, un’amicizia sincera. Quando si crea questa sintonia, nascono progetti di valore, e sono davvero contento di questa collaborazione.
Le varie esperienza dal vivo che stai facendo hanno influenzato in qualche modo la musica che stai scrivendo?
Spesso, soprattutto nell’ambito del pop, si tende a separare nettamente le fasi: si fa un tour e poi ci si dedica alla scrittura e alla produzione musicale. Fino ad ora, anch’io avevo sempre scritto musica nei momenti “off”, concentrandomi sulla creazione di album durante le pause tra i vari progetti. Stavolta, però, sto scrivendo e componendo mentre sono in tournée, e devo dire che è un’esperienza molto stimolante. Questo approccio mi offre anche l’opportunità di testare i brani dal vivo ancora prima di registrarli o pubblicarli. È successo, ad esempio, con l’inedito che ho scritto insieme a Willie Peyote: l’abbiamo presentato per la prima volta il 31 ottobre al nostro concerto in Triennale. La risposta del pubblico è stata ottima, e il brano ha dimostrato di funzionare molto bene anche live. Poter mettere alla prova i pezzi direttamente davanti al pubblico è un vantaggio enorme: non solo offre una verifica empirica immediata su quanto il brano possa essere efficace dal vivo, ma consente anche di adattarlo e perfezionarlo in base alle reazioni che suscita. Questo metodo sta rendendo questa fase creativa particolarmente ricca e dinamica.
Un approccio, quello di “testare” i brani dal vivo, molto simile a come si faceva una volta, per capire cosa funzionasse meglio. L’importanza della musica live…
Oggi è importante ricordarselo, anzi, ricordarselo ancora meglio, perché il mondo digitale, con la sua distanza e i social, sembra voler sostituire tutto. Ma non è così. Un concerto live è un’esperienza unica, e l’emozione che si prova dal vivo è insostituibile. Non c’è paragone.
Sono assolutamente d’accordo: un brano che funziona dal vivo ha quel qualcosa in più, quel quid speciale, rispetto ad altre produzioni. La prova empirica del live diventa fondamentale, perché ti permette di capire se una canzone riesce davvero a connettersi con il pubblico in modo immediato e autentico.
Che rapporto hai con la musica elettronica?
Mi piace usare linguaggi diversi, ma quello che mi dispiace è quando vedo persone, sia musicisti che pubblico, che si precludono a priori delle possibilità. Questo accade, per esempio, con alcuni musicisti jazz, soprattutto quelli di una certa età, che suonano un jazz molto ancorato alle sue origini e non si aprono a nuove influenze. Non voglio dire che a tutti debba piacere tutto, ma credo che sia importante conoscere e imparare a confrontarsi con nuovi linguaggi. Dall’altro lato, ci sono anche i giovani che non conoscono il jazz e magari non sono nemmeno curiosi di scoprirlo, non si pongono la domanda su cosa questa musica potrebbe aggiungere alla loro esperienza di ascolto. Personalmente, non mi precludo mai nuove strade. Sono sempre molto aperto a esplorare, anche se questo significa confrontarmi con l’elettronica e altri generi.
Tuttavia, il mio approccio alla composizione parte sempre dal pianoforte. Per me, la musica nasce dallo strumento, da qualcosa che ha una sua fisicità, come il pianoforte, uno strumento totalizzante. Questo rimane sempre centrale per me: la parte musicale, nel senso più stretto. Ma la musica non è solo quella: penso, per esempio, a 4’33” di John Cage, una composizione che dura quattro minuti e trentatré secondi di silenzio, in cui il performer non suona e il pubblico è il vero protagonista. La musica in questo caso è il rumore del pubblico, il suo vociare, che cresce man mano durante il tempo del pezzo. E quella è musica, eccome. Per me, quella è musica.
Tra gli ultimi progetti a cui hai lavorato c’è anche la colonna sonora di un podcast per Raiplay, Una morte da mediano. Com’è stato lavorarci?
È stato un mondo molto diverso e un’esperienza bellissima. Infatti, spero di replicarla presto. È stata la prima volta che scrivevo su commissione, e ovviamente è molto diverso rispetto a scrivere per i propri progetti personali. Quando ti viene commissionato un lavoro, ci sono degli standard estetici e artistici da seguire, a cui ti devi rifare. Questo può sembrare una limitazione, e certamente lo è, perché è come se ti dicessero: “Hai libertà, ma devi muoverti in questo range sonoro”.
Per esempio, Filippo Vendemmiati, il giornalista e regista che mi commissionò la colonna sonora, mi diede alcuni riferimenti di ascolto da cui prendere spunto. Mi disse di ascoltare certi brani che a lui piacevano molto e cercare di fare qualcosa di simile, pur partendo dai miei linguaggi. Ma, come insegna Italo Calvino nelle Lezioni americane, la vera libertà risiede proprio nella limitazione, nell’imposizione di confini. Senza limiti, rischiamo di avere solo l’illusione della libertà, che è falsa e fittizia. Invece, se qualcuno ci pone dei limiti, possiamo agire all’interno di questi con la massima libertà, una volta che abbiamo chiarito l’essenza di quello che vogliamo veramente esprimere.
Lavorare con persone di grande intelligenza e cultura, come Vendemmiati, è stato un grande aiuto. Mi sono trovato molto bene, non è stato per niente pesante né stressante, e sono stato contento del lavoro che ho prodotto. Alla fine, ho scelto di pubblicarlo come album a mio nome, e questa è stata una bellissima esperienza.