26/02/2013

Harper With Musselwhite

Due grandi artisti celebrano il blues in ogni sua forma e colore. Anche in versione cd+dvd con documentario sul making of e tre brani registrati dal vivo nello studio di Harper

Comincia così, come se lo spirito di Skip James si fosse impossessato del corpo di Ben Harper per dare un seguito alla propria eredità artistica, rivitalizzandola con una leggera scossa elettrica e con il feeling che trabocca copioso dall’armonica di Charlie Musselwhite. Già il feeling, perché questo è il blues secondo Musselwhite. O ce l’hai o non ce l’hai. È come una voce che ti parla dal profondo dell’anima, e Ben Harper la sente forte e chiara: è questa voce che guida il suo ispirato percorso di ricerca musicale, spingendolo a tradurre le sue urgenze vitali in suono.

Lui e Musselwhite si sono piaciuti all’istante, fin dal primo incontro avvenuto sotto l’egida di John Lee Hooker in un piccolo club di San Francisco nel 1994. Le loro traiettorie sonore erano destinate a incrociarsi nel nome del blues; Hooker è stato il primo a capirlo, e ha fatto in modo che ciò accadesse, anche se a distanza di circa diciotto anni da quell’incontro. Così, nel 2012, i due sono entrati nello studio Carriage House di Los Angeles con il producer Chris Goldsmith, il fonico Sheldon Gomberg e alcuni componenti della band di Harper: il chitarrista Jason Mozersky, il bassista Jesse Ingalls e il batterista Jordan Richardson. E non hanno perso tempo a decidere sul da farsi perché il blues va lasciato fluire liberamente, preoccupandosi soltanto di catturare il suono nella maniera giusta affinché si conservi intatta la sua potenza espressiva. A questo proposito, ascoltatevi l’assolo di armonica di I’m In I’m Out And I’m Gone. Musselwhite è in totale sintonia con la band, con il feeling del brano. Lui Muddy Waters lo ha conosciuto di persona, e sa bene come cavalcare un selvaggio riff elettrico. È una questione di misura, di equilibrio: lo scopo non è addomesticare il riff, ma rimanere in sella il tempo necessario stando ben attenti a non farsi disarcionare e calpestare.

Get Up! (l’album) è una celebrazione del blues in ogni sua forma. We Can’t End This Way è un valzerino che fonde blues e gospel su un ritmo in tre quarti sostenuto da battiti di mani e qualche colpo di grancassa: richiama alla memoria There Will Be A Light, il bellissimo disco nato nel 2004 dalla collaborazione di Harper con i Blind Boys Of Alabama. I Don’t Believe A Word You Say è un pugno nello stomaco, un rock-blues compatto e incazzato che arriva dritto al punto: «Non ho nemmeno bisogno di guardarti negli occhi», grida Ben, «non credo a una sola parola di quel che dici», mentre l’armonica di Musselwhite si infila come una lama di coltello tra un verso e l’altro dando manforte alla voce, per poi ingaggiare un duello con le scivolose traiettorie soliste della chitarra elettrica. Ma è stato You Found Another Lover (I Lost Another Friend) il picco emotivo di questa collaborazione, ha confessato Ben. Si tratta di una straziante ballata il cui giro armonico riporta a Diamonds On The Inside, ma anche a I Shall Be Released di Bob Dylan: Harper imbraccia una Martin e, sostenuto dai lamenti di Musselwhite, si mette a nudo nel tentativo di esorcizzare il dolore causatogli dalla perdita di un amore e di un’amicizia.

I Ride At Dawn, invece, porta il blues sul campo di battaglia. È dedicata all’amico Nicholas P. Spehar, un Navy Seal di 24 anni caduto durante una missione speciale in Afghanistan. Harper sceglie un riff tetro come un presagio di morte e buio come la notte prima del conflitto, prima che l’elicottero che trasportava Spehar e i suoi compagni decollasse. Mentre il silenzio viene lacerato dalle gelide note di una chitarra National, un uomo riflette sul giuramento che ha fatto al proprio Paese, come prima di lui suo padre e il padre di suo padre: «Sono nato per combattere / Sono nato per sanguinare / Sono nato per aiutare coloro / Che sognano di essere liberi». Questo però non gli impedisce di interrogarsi sulla natura umana e sul senso della guerra: «Dai a un uomo cento anni / E lui ne vorrà altri cento / Dagli mille scelte / E lui sceglierà ancora la guerra». Il protagonista di Blood Side Out, invece, è sull’orlo di una crisi di nervi. Il suo cuore è impregnato di vino e le sue labbra sanno di whisky; si aggira per le strade della città come un vagabondo e sente una sirena gridare il suo nome in lontananza. Ha in mente qualcosa di illegale, «ma non si tratta di omicidio», e strofa dopo strofa il suo battito cardiaco aumenta a dismisura confondendosi con il basso pulsante di Jesse Ingalls. È lo stesso basso testardo che sputa il riff martellante della title track, accompagnando lo sfogo di un altro uomo, uno che in più di un’occasione si è scontrato con il lato oscuro della vita: «Non ditemi che non posso infrangere la legge / Perché la legge ha infranto me».

Potrebbe sembrare che Get Up! tratteggi un men’s world, ma non è così. La protagonista di She Got Kick è una che sa il fatto suo. Avanza con passo deciso, ancheggiando a tempo di rhythm & blues, e ti conviene fare a modo suo o saranno guai, avverte Ben. L’uomo che canta All That Matters Now lo sa bene… ha voluto fare di testa sua e si è ritrovato a ululare alla Luna come Elmore James.

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