03/09/2013

Jack Johnson canta le gioie della vita familiare

L’abbiamo raggiunto a Londra per farci raccontare il nuovo album

Questa volta canta di famiglia, dei figli, della moglie e dei piatti da lavare. Abbiamo raggiunto Jack Johnson a Londra per farci raccontare del suo nuovo album, dell’accordatura che gli ha insegnato David Crosby, dell’influenza del suo amico Ben Harper, della fama. E del potere che ha il mare di lenire ogni ansia.

Jack Johnson è uno di quegli artisti sui quali sai di poter sempre contare: mai un’uscita fuori luogo, mai un atteggiamento da divo e una serenità d’animo contagiosa, che traspare anche dalle sue canzoni quasi fossero un’estensione dell’anima.
Giunto al sesto album in studio, Johnson sembra ancora il ragazzino il cui unico scopo era andare in spiaggia, suonare la chitarra acustica e poi gettarsi tra le onde, tanto che ti guardi intorno per capire se all’interno della stanza dell’hotel ci sia una tavola da surf pronta a solcare le acque del Tamigi.
Per rompere il ghiaccio e memore dei suoi trascorsi in una punk band ai tempi del liceo, mi presento a lui con una maglietta dei Misfits, che pare subito apprezzare… Appena nota la t-shirt, inizia a cantare Astro Zombies della band di Glenn Danzig: «Oh, all I want to know, all I want with just a touch of my burning hand, I send my Astro Zombies to rape the land, prime directive, exterminate the whole human race and your face… Che gruppo fantastico i Misfits, penso uno dei più sottovalutati di sempre: anche se hanno venduto milioni di magliette, in pratica nessuno ne parla mai. Credo che nessuno alla fine degli anni ’70 suonasse quelle cose e poi è arrivato il metal che si è preso molto del merito che sarebbe dovuto spettare a Danzig. Qualche volta in studio, nei momenti di relax, ci mettiamo a suonare qualche loro pezzo».
Difficile pensare a te che canti Astro Zombies durante le session per un album così intimo come From Here To Now To You
«Sai com’è, c’è un momento per tutto. Se mettessi delle telecamere all’interno degli studi di registrazione non penseresti più le stesse cose di me [ride]. Amo moltissimo il processo di registrazione, soprattutto per quei momenti in cui usciamo un po’ dai binari di quello che facciamo di solito. Dopo cinque o sei ore in cui suoni nuovo materiale, magari la stessa canzone per dieci volte, passare a qualcos’altro riesce a ricaricarti completamente. Serve a dare a me e alla band un po’ di slancio quando magari giungono dei momenti di stanca, che andrebbero a inficiare la registrazione del brano cui stiamo lavorando. Un’altra cosa che faccio regolarmente è mettere in diffusione dischi che amo quando ci riposiamo per un po’ o quando mangiamo. Dipende dall’umore in cui mi trovo in un determinato giorno o magari da un accordo appena suonato che mi ricorda qualcosa di vecchio. Non ho paura di influenzare la mia musica con i miei ascolti, anzi ho sempre trovato di grande ispirazione sentire i dischi con cui sono cresciuto. Questa volta ho ascoltato quasi esclusivamente David Bowie e T Rex, quindi credo che non ci sia posto migliore dove parlarne se non un albergo di Londra dietro Oxford Street: proprio qui vicino, ai Trident Studios, sono stati registrati alcuni degli album che amo di più».

Continua a leggere l’intervista di Luca Garrò su JAM di settembre in edicola…

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