John Lennon tra pigrizia e filosofia
Il libro di Stefano Scrima per Arcana sulla rivoluzione lennoniana
Negli ultimi anni gli studi dedicati alla cultura popular hanno reso un grande servizio alla letteratura rock poiché è stato possibile rileggere – in alcuni casi leggere completamente, e per la prima volta – l’esperienza e l’opera dei protagonisti di un’epoca attraverso una chiave diversa. Stefano Scrima è uno degli studiosi più attivi in tal senso, pensiamo ai suoi due testi Arcana L’arte di sfasciare le chitarre (2021) e Smells Like Kurt Spirit (2023). Dopo La filosofia di John Lennon di Leonardo Vittorio Arena (Mimesis, 2018), nel quale il docente ha individuato la rivoluzione spirituale dell’ex Beatle, Scrima in Sto solo dormendo. Lennon e Filosofia sottolinea la peculiarità politica dell’ozio lennoniano.
L’opera d’arte totale con Yoko, i Bed Peace, i cortei anti Vietnam, le polemiche contro Nixon, eppure nella tua arguta lettura al centro troviamo il proverbiale ozio lennoniano. Fu questa la sua rivoluzione?
Lennon era un artista, si sentiva tale, senza confini. Trasformava la sua vita e i suoi sentimenti in arte, poi la natura gli ha dato uno straordinario talento musicale che ha messo a frutto dall’inizio alla fine della sua esistenza. Non voleva essere un rivoluzionario, tantomeno un capo rivoluzionario. Tuttavia ha sempre espresso liberamente il suo pensiero, un pensiero regolarmente anti-sistema e in generale antiautoritario. È normale che nella misura in cui il fare, produrre, consumare viene elevato a valore dal sistema, Lennon si rifugi nell’ozio, trasformato in arte, uno spazio nel quale è ancora possibile pensare e avere uno sguardo critico sul mondo. Credo sia stato questo il suo messaggio più importante: rallenta, guardati intorno, inizia a pensare con la tua testa.
Racconti, attraversando le canzoni più rappresentative, l’evoluzione di pensiero e scrittura di John. Ai primi tempi del rock ‘n’ roll da brigata alcolica, c’erano avvisaglie nei testi di questa figura ancora così intrigante, anche intellettualmente?
Le prime canzoni di John e dei Beatles erano scritte sulla falsariga degli standard rock’n’roll provenienti da oltreoceano, anche i testi si adeguavano a quella ventata di libertà in cui si poteva parlare, provocatoriamente, di sentimenti amorosi e piacere sensuale quasi come dispetto nei confronti della generazione dei padri che vedeva nell’ancheggiare di Elvis un sintomo inequivocabile di decadenza e depravazione. Ma è durato poco perché già i Beatles (ma anche Elvis stesso) sono stati lanciati come teen idols, quindi come perfetti strumenti del mercato, e per questo anche adeguatamente edulcorati sul piano musicale e dei messaggi. Le canzoni parlavano d’amore, con la grandissima novità del punto di vista femminile (She Loves You), e per diverso tempo ha funzionato tutto alla perfezione, fino a quando John non ha sentito la necessità di distaccarsi dal canone per esprimere altre sensazioni ed emozioni, che ha coinvolto sia l’elemento strumentale che quello lirico, dando vita, insieme a Paul, George e Ringo a una serie di dischi epocali, almeno a partire da Rubber Soul (1965). La presa di consapevolezza di John di avere una voce – e quindi di essere un artista, con una sua poetica e uno sguardo personale, non solo un teen idol sforna-canzoni – è stata graduale ed è iniziata con A Hard Day’s Night (1964) per ritenersi compiuta in Revolver (1966). Non è un caso che In His Own Write e A Spaniard in the Works, i suoi due libri di racconti nonsense, siano stati pubblicati nel 1964 e nel 1965.
Help è un brano chiave per comprendere il mondo lennoniano, nel quale la contraddizione e la non-linearità diventeranno un codice espressivo. A chi chiedeva aiuto John e perché?
Help! è l’esternalizzazione (forse meglio la sublimazione) di un disagio, che è quello di sentirsi intrappolato nel ruolo del teen idol. È un grido d’aiuto rivolto a tutti e a nessuno, in definitiva a se stesso. È una dichiarazione d’intenti. Il cambio di passo dei Beatles sarà evidente a partire dal disco successivo, Rubber Soul, e soprattutto con Revolver. Dal 1966 in poi i Beatles non si sono più esibiti live (fatta eccezione per il celebre, ultimo, concerto sul tetto del 1969), e questo ha favorito la sperimentazione in studio contribuendo alla creazione di dischi che sono diventati dei punti di riferimento per tutta la musica e la cultura che sarebbero venute dopo.
Non ne parli nel libro ma te lo chiedo egualmente. Contrariamente alla vulgata per la quale i protagonisti del rock dell’epoca erano adolescenti scalmanati, la storia ce li ha riconsegnati come lettori attenti e curiosi, pensiamo ai vari Jim Morrison, David Bowie, Pete Townshend. John non era da meno. Secondo te quali letture alimentavano il suo immaginario?
Lennon amava la letteratura, soprattutto quella britannica. Aveva letto molto durante l’infanzia, ma se devo segnalare delle letture che lo hanno in qualche modo formato e accompagnato durante la sua vita direi lo Stevenson de L’isola del tesoro, dal quale la band trasse uno dei suoi primi nomi, Long John and the Silver Beatles (Long John Silver è un personaggio del romanzo), che poi divenne semplicemente The Beatles; il Joyce di Finnegan’s Wake, al quale la critica ha accostato lo stile letterario di John; e naturalmente il Carroll di Attraverso lo specchio, opera alla quale John si ispira per scrivere Lucy in the Sky with Diamonds e I Am the Walrus, creando così in musica un mondo fantastico entrato anch’esso a far parte dell’immaginario culturale occidentale alla pari del libro.
John e il lavoro. Ne avrebbe fatto a meno ma amava dichiaratamente il denaro e alimentava l’industria discografica. Una contraddizione insanabile oppure nella sua logica John riusciva a pacificare questo dissidio?
Dal momento in cui ha potuto decidere come e quando lavorare, quindi direi con la fine dell’attività live dei Beatles nel 1966, penso che sia riuscito a risolvere questa contraddizione, perché sostanzialmente faceva quello che amava fare, cioè scrivere canzoni in piena libertà. Non era più un vero e proprio lavoro, l’avrebbe fatto anche senza guadagnare caterve di denaro. A un certo punto, dal 1975 fino al 1980, anno del ritorno con Double Fantasy (e della tragica morte), si è addirittura ritirato più o meno a vita privata per fare il “casalingo”. I soldi comprano l’ozio, è sempre stato così, e in un mondo governato dal denaro chi ha la possibilità di guadagnare difficilmente non la sfrutta.
I’m only sleeping dà il titolo al tuo libro ed è il brano centrale dell’opera. L’elogio lennoniano della pigrizia fu un caso isolato o la cultura rock dell’epoca assorbì questo invito al rallentamento?
Beh, quello di rallentare era un invito condiviso da tutto il movimento giovanile portatore di un nuovo modello di vita e di società – poi non realizzatosi. Diciamo che John da questo punto di vista è stato un anticipatore, ma il solo fatto di poter vivere scrivendo canzoni – quindi da un certo punto di vista “non lavorando” – faceva di lui l’incarnazione dell’utopia. Il rock, per un certo periodo, ha rappresentato la realizzazione dell’utopia. Se poi devo dirti altre canzoni degli anni ’60 e ‘70, eccettuate le altre di Lennon, sulla scia di I’m Only Sleeping, mi vengono in mente Lazy Sunday (1968) degli Small Faces; Sitting Doing Nothing (1968) di Elton John; e Lazy on a Sunday Afternoon (1975) dei Queen.
L’incontro con Yoko a tuo avviso che impatto ha avuto nel pensiero e nell’azione di John? Molti considerano ancora l’artista giapponese come colei che ha sottratto John ai Beatles, ma è difficile pensare a lui come un agnellino o una figura docile…
Ma infatti Yoko è sempre stata utilizzata per giustificare la fine di un’epoca strabiliante, ma evidentemente giunta al termine. Anche senza Yoko, i Beatles si sarebbero probabilmente sciolti, fra l’altro per regalarci altri dischi bellissimi – non so come sia possibile che 50 anni dopo lo scioglimento della band Paul McCartney sia riuscito a scrivere un disco come McCartney III, un lavoro che per qualunque altro cantautore sarebbe un capolavoro, per lui ordinaria amministrazione (a 80 anni!). Se fosse ancora vivo, anche John avrebbe saputo stupirci, su questo non c’è dubbio, stiamo parlando di songwriter fuori dal comune, irripetibili. Ad ogni modo, è lo stesso Lennon a dire che fu l’incontro con Yoko a fargli capire chi voleva davvero diventare, ovvero l’artista completo che oggi conosciamo. Non è possibile immaginare un John senza Yoko. (Fra l’altro, è risaputo, ma la più celebre canzone di John, Imagine, è ispirata a Grapefruit, libro di Yoko Ono).
Le canzoni anni ’70 di Lennon hanno una marcata sottolineatura politica, complice anche il suo amore per gli slogan e le frasi ad effetto. Secondo te troviamo lì il suo messaggio più autentico e personale?
L’esposizione politica di Lennon è stata, come forse capita per qualsiasi artista, un po’ improvvisata, come ammise John stesso. Si sentiva in dovere, data la sua posizione, di dire quello che pensava e aiutare i più deboli. Era fatta con genuinità e convinzione, pensa per esempio a Some Time in New York City (1972), un disco che per i temi trattati sicuramente non avrebbe avuto molto successo, e infatti non lo ebbe. Ma il John Lennon più autentico credo lo si debba cercare altrove, per esempio nel suo primo vero e proprio album solista, lo scarno John Lennon/Plastic Ono Band (1970), un disco in cui si mette a nudo, trasponendo in musica l’esperienza dolorosa della perdita della madre, evento che segnò tutta la sua vita.