02/09/2022

Le nove vite di Steve Winwood: Pasquale Boffoli racconta il grande artista

Spencer Davis Group, Traffic, Blind Faith e altro nel libro Arcana Le nove vite di Steve Winwood, scritto da Pasquale Boffoli

 

Benché sia una figura celebre, sia per pezzi come Glad che per antiche militanze e collaborazioni, Steve Winwood non ha mai avuto una particolare attenzione da parte dell’editoria italiana. Traffic e Blind Faith sono nomi assai frequenti nei saggi di storia del rock, ma la vicenda di Winwood ha sempre meritato un approfondimento: Pasquale Boffoli prova a entrare nella materia con il suo libro per Arcana.

 

Dicevamo che Winwood, nonostante la popolarità, non è mai stato studiato per bene in Italia: quali difficoltà hai avuto nell’impostare un libro su di lui?

Dici bene: per una fortuna anagrafica ho sempre ammirato tantissimo in tempo reale sin dagli anni ’60 e in tutte le sue seguenti reincarnazioni artistiche l’immenso talento di Steve Winwood, cantante/pluristrumentista/compositore, e mi sono sempre stupito della mancanza assoluta nella pur nutrita bibliografia rock e musicale italiana (a differenza dell’estero) di libri e saggi che studiassero la sua sfaccettata arte e lunga carriera nella loro interezza, dai ’60 fino agli anni duemila. Così mi sono rimboccato le maniche per colmare questa grave lacuna. 

Naturalmente sono state necessarie parecchie ricerche e comparazioni da varie fonti, sia cartacee che online, generose traduzioni di ‘liner notes’ contenute nei libretti dei cd, il tutto è durato circa un anno. Ho integrato e ottimizzato poi la parte informativa/didascalica con la mia personale dimensione ‘critica’ sulle varie fasi della carriera di Winwood: è qui che come ‘anziano’ cultore dell’artista ho incontrato le maggiori difficoltà, perché analizzandone ed esaltandone la prima seminale produzione per la storia del rock tra seconda metà anni ’60 e prima dei ’70 quello che ha inciso da solista dal 1977 in poi rischiava alla fine di risultare qualitativamente molto penalizzato. 

Ho cercato quindi di essere il più possibile obiettivo, ascoltando più volte tutti i dischi e facendo i dovuti ‘distinguo’ critici. Alla fine ho dovuto ‘confessare’ onestamente a me stesso – riportandolo nel libro – che, al netto delle fasi ed episodi mainstream e commerciali più deleteri con ambizioni da classifica, Winwood ha inciso anche nella sua carriera solista cose egregie e ispirate, soprattutto nei duemila. 

Ho superato poi il problema delle traduzioni dei testi grazie al prezioso apporto di mio fratello Ciro. Infine, quello dell’artwork/copertina del libro che mi pare risolto brillantemente da Ambrogio Palmisano.

 

Ragazzo prodigio nello Spencer Davis Group, Steve ha inevitabilmente segnato gli anni ’60: qual è stato il suo contributo nella celebre band?

Direi fondamentale sin dall’incisione quale ‘enfant prodige’ (come sottolineavi tu) a 17 anni del primo EP ed LP della band. Era lui, non il pur valido chitarrista/cantante Spencer Davis titolare del nome del gruppo, il vero leader con la sua incredibile, potente voce ricca di pathos, ‘di colore’, profondamente influenzata dalla cultura musicale americana (blues, rhythm & blues, gospel, soul) e il suo inconfondibile Hammond-B3. Ma suonava anche il pianoforte e la chitarra solista, era il maggior compositore (a cominciare da Gimme Some Lovin’ e I’m A Man, i due successi planetari della band) per cui si può dire senza tema di smentita che lo Spencer Davis Group ‘era’ Steve Winwood. Quando il gruppo continuò senza di lui fu tutta un’altra storia.

 

Il lavoro nei Traffic è stato senza dubbio l’esperienza più duratura e preziosa per lui. Senza il primo Lp e John Barleycorn il rock inglese sarebbe stato diverso e molto più povero. Qual era il ruolo di Steve nella celebre band?

Indubbiamente quello di lider maximo (esattamente come nello S.D.Group) essendo il compositore, cantante e polistrumentista della band. Tutta la parte musicale, le melodie e gli arrangiamenti erano gestiti e creati da lui, coadiuvato però per il risultato finale (sarebbe ingeneroso non sottolinearlo) fedelmente e costantemente dal batterista/percussionista Jim Capaldi, autore dei testi dei brani e cantante in alcuni episodi. 

In una citazione del libro Capaldi dichiara: “Iniziavo sempre io scrivendo i testi dei brani. Qualsiasi cosa i Traffic abbiano fatto io ho sempre fornito a Steve le liriche complete nella loro forma, complete di titoli. Steve interveniva sempre in un secondo momento, per adattare musicalmente la metrica delle parole”. Il ruolo di Capaldi insomma nella produzione artistica dei Traffic (a cominciare dai due dischi fondamentali che hai citato), pur secondario rispetto a quello fondamentale di Winwood, è sempre stato per Steve assolutamente funzionale e prezioso.

 

Secondo te quali sono i brani dei Traffic nei quali si sente maggiormente il grande talento winwoodiano?

Bella domanda, che mi mette seriamente in difficoltà perché sono tantissimi! Certamente ne dimenticherò qualcuno, facciamo che te ne elenco almeno venti, mi pare il minimo:

Dear Mr.FantasyNo Time To LivePaper SunColoured Rain40.000 HeadmenPearly QueenNo Face, No Name, No NumberJohn Barleycorn Must DieFreedom RiderGladEmpty PagesEvery Mothers SonShangai Noodle FactoryWithering TreeLow Spark Of High Heeled BoysMany Miles To FreedomRainmaker  (Sometimes I Feel So) UninspiredGraveyard PeopleWalking In The Wind.

 

Dopo il 1970 gli album dei Traffic, per quanto degni di ascolto, si fanno progressivamente più sonnacchiosi, o meglio meno vivaci del passato. Cosa stava succedendo? 

Sì, dopo l’innovativo, traboccante di energia creativa, capolavoro assoluto John Barleycorn Must Die, nei tre lavori (quattro con il doppio live On The Road) usciti tra il ’71 e il ’74 Winwood e Capaldi imboccano una fase compositiva ed esecutiva che fa capitolo a sé e che nel titolo di un paragrafo del mio libro ho chiamato di “malinconia cosmica”, caratterizzata da ballate e brani lenti, ipnotici, dilatati, fortemente percussivi, molto ‘blues’ come mood (non nella struttura), in alcuni casi molto lunghi. Credo che il tutto rispondesse nell’ispirazione ad una mutata, più dolente, disillusa sensibilità esistenziale di Winwood: c’è un brano in particolare, (Sometimes I Feel So) Uninspired, (che adoro) che nel testo – ma sin dal titolo – esprime magnificamente cosa stava succedendo nella vita di Winwood, e di conseguenza alla sua sensibilità artistica. 

In ogni caso a mio parere anche questa seconda fase della produzione dei Traffic, pur profondamente differente dalla prima (innovativa, scoppiettante, poliedrica, para-psichedelica) rappresenta con modalità particolarmente peculiari un capitolo esaltante nella discografia della band, non inferiore   qualitativamente alla precedente, semplicemente diversa.

 

Un altro capitolo decisivo è quello dei Blind Faith. Un supergruppo storico, una inevitabile concentrazione di talenti: come mai è durato così poco?

In base alle mie ricerche su varie fonti (italiane e non) posso dirti con una certa sicurezza che la colpa non fu certo di Winwood, quanto della volubilità (per l’ennesima volta) artistica e caratteriale dell’errabondo e inquieto Clapton, che nonostante l’estrema validità del supergruppo non era convinto fino in fondo della sua linea musicale lasciandone l’onere sempre di più a Winwood. Fu lui ad abbandonare, risucchiato da nuove esperienze e amici musicisti americani (Delaney & Bonnie, Derek & The Dominos). Aveva fatto la stessa cosa in passato con gli Yardbirds e i Bluesbreakers di John Mayall. Steve ci rimase molto male, così come Mayall anni prima.

 

Steve si mette in proprio nel 1977, proseguendo negli agli anni ’80, con cambiamenti controversi: cosa salveresti della sua discografia solista?

Non certamente i lavori della seconda metà anni ’80 a cavallo del passaggio di scuderia dall’Island alla Virgin, quelli di sapore sfacciatamente mainstream e con ambizioni di classifica. Salverei invece i dignitosi Arc Of A Diver (1980), Talking Back To The Night (1982), targati Island, lo sfaccettato Refugees Of The Heart (1990), e nei duemila i due ottimi About Time (2003) e Nine Lives (2008) nei quali Winwood si riappropria definitivamente di una smagliante dignità compositiva e creativa che a fasi alterne aveva latitato negli ’80 e ’90.

 

La partnership con Eric Clapton è stata una delle ultime magie di Steve, cosa accadde in quella magica coppia?

Se intendiamo ‘ultime magie’ discograficamente, in effetti il ritorno nel terzo millennio della loro partnership in concerto del doppio CD/DVD Live From Madison Square Garden (2009) è magnifico e magnetico, direi  essenziale: come assassini che tornano sul luogo del delitto riprendono vecchi brani dei Cream, Blind Faith, Spencer Davis Group, dei loro lavori solisti, ma anche cover di blues classici e di Jimi Hendrix, infondendo al tutto una nuova linfa vitale, vocale e strumentale. La partnership si ripeterà nel 2010 nell’ennesima edizione del ‘Crossroads Guitar Festival’ organizzato come sempre da Clapton. Da segnalare anche la chicca del suo strepitoso solo in Dirty City su Nine Lives. 

Ma l’inizio della fraterna collaborazione tra i due risale addirittura al 1966 quando suonavano ‘british blues’ insieme nei  Powerhouse, un gruppo che ebbe vita brevissima. In quello stesso anno Clapton forma i Cream con Jack Bruce e Ginger Baker e Winwood rifiuta gentilmente l’offerta del suo amico Eric di farne parte. Ma il loro rapporto artistico e umano ormai è cementato e tre anni dopo, nel 1969, terminata la storia Cream, i due fatalmente partoriscono una splendida creatura musicale, i Blind Faith, nella quale i loro enormi talenti compositivi e interpretativi si incrociarono e integrarono magicamente: purtroppo avrà vita breve, la durata di un solo, iconico e creativo album omonimo.

 

Negli ultimi anni Steve ha collaborato con vari colleghi, l’ultimo dei quali è Carlos Santana nel suo ultimo disco. Pensi abbia ancora qualcosa da dire?

Alludi alla loro reinterpretazione della storica A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum nell’ultimo disco di Santana Blessings and Miracles uscito ad ottobre 2021, alcuni mesi dopo la pubblicazione del mio libro (gennaio 2021). Nel 2020, ad agosto, mentre il libro era in lavorazione e in piena pandemia, Winwood pubblicò su youtube il video ‘agreste’ di Now The Green Blade Riseth in cui riprende un antico traditional folk inglese con le sue solite fascinose modalità vocali accompagnandosi solo con una chitarra acustica, un inno ripreso negli anni da molti altri artisti. Una sorta di John Barleycorn Must Die nuovo millennio insomma. 

Ecco, oltre altre eventuali collaborazioni come ospite di lusso di suoi colleghi musicisti, auspicherei personalmente un intero corposo lavoro acustico di rielaborazioni di brani folk traditional inglesi ma non solo. Chissà che il mio sogno non si avveri!  Alla veneranda età di 74 anni credo possa essere la direzione musicale ideale (forse l’unica) per Steve Winwood se vuole proporre ancora qualcosa di molto valido, attingendo alle antiche radici musicali della sua terra.

Pasquale Boffoli - Steve Winwood

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