21/02/2018

Life In 12 Bars: al cinema la vita a suon di blues di Eric Clapton

Visto in anteprima il documentario sulla vita di Slowhand a fine febbraio nelle sale cinematografiche
Il blues come ragione di vita. E la vita in 12 battute, come quelle del blues e come quella di Eric Clapton, è una vita di successi e di gioie, ma anche di sofferenze annesse e connesse (e talvolta cercate).
Life In 12 Bars è un film documentario che ripercorre la vita di Slowhand, partendo proprio da quando nasce il 30 marzo 1945 a Ripley, città inglese del Surrey. La pellicola è sostanzialmente suddivisa in due parti: nella prima si parla dell’infanzia, del difficile rapporto con la famiglia e del primo periodo musicale nei vari gruppi di successo in cui ha militato negli anni ’60 (e quindi Yardbirds, John Mayall & the Bluesbreakers, Cream e Blind Faith); nella seconda la sua carriera musicale viene collegata maggiormente ad alcune tappe fondamentali della sua vita come l’ossessione per le droghe e poi per l’alcool, l’amore incondizionato per la modella Pattie Boyd (in precedenza moglie del suo grande amico George Harrison) e la tragica scomparsa di Conor (figlio di appena quattro anni che aveva avuto da una relazione con la showgirl italiana Lory Del Santo) prima della proverbiale “luce in fondo al tunnel”.
 
Il blues accompagna tutta la vita di Clapton e rimane questo il messaggio principale del film diretto dal premio Oscar Lili Fini Zanuck, che sarà disponibile nelle sale cinematografiche il 26, il 27 e il 28 febbraio.
Slowhand a nove anni scopre di essere cresciuto con la nonna, Rose Clapp, e con il suo secondo marito Jack, semplicemente perché credeva che quelli fossero i suoi genitori e che sua madre fosse in realtà la sua sorella maggiore. Poi giunge la rivelazione e una lunga serie di equivoci sui rapporti di parentela con i suoi familiari lo renderà triste e diffidente nei confronti di chiunque, finché a tredici anni non riceve la sua prima chitarra.
Ore e ore passate ad esercitarsi per imitare i suoi miti del blues, a volte fino alle tre di notte, come ricorda la nonna di Eric, una delle voci del docufilm, sebbene la testimonianza più presente in questo senso sia proprio quella del bluesman, tra interviste d’archivio e contributi più recenti che aiutano nella narrazione.
Da B.B. King al discografico della Atlantic Records Ahmet Ertegun, fino all’ex Pink Floyd Roger Waters, tanti riconoscono meriti importanti e diversi ad Eric Clapton come chitarrista nell’ambito di Life In 12 Bars.
Non possono mancare inoltre nella pellicola i riferimenti al rapporto con Hendrix e alla grande popolarità acquisita da Slowhand nel periodo dei Bluesbrakers, quando nel 1966 compare la scritta sul muro di Londra “Clapton Is God” (“Clapton è Dio”), particolare per nulla scontato per un ragazzo di appena 21 anni.
 
Si passa poi dai grandi successi pian piano affievolitisi dopo lo scioglimento dei Cream, al rischio concreto di morire, che sembra quasi una volontà del chitarrista negli anni ’70. Un Eric Clapton reduce dalla dipendenza dalle droghe si fa travolgere dalla dipendenza dall’alcool. E le immagini del docufilm si fanno via via più tristi: Slowhand appare dapprima come un eremita in preda alla droga e poi nella seconda metà del decennio sale di nuovo sui palchi per esibirsi ma è perennemente ubriaco, tanto da non riuscire a tenere il suo show per più di mezz’ora e da spingersi anche a dichiarazioni razziste, per le quali successivamente chiederà scusa.
Nemmeno con Pattie Boyd, donna da lui a lungo amata e desiderata con cui finalmente riesce ad avere una relazione più “stabile” dopo la fine definitiva del matrimonio di lei con George Harrison, andrà tutto come dovrebbe sempre per i noti problemi di Eric Clapton con l’alcool e, come se non bastasse, è di quel periodo la tragedia del figlio Conor di appena quattro anni, avuto dalla relazione con Lory Del Santo e caduto accidentalmente dal 53esimo piano di un grattacielo della 57esima strada di New York.
Anche da questa tragedia Clapton si risolleverà con la musica. Al piccolo Conor dedicherà Tears In Heaven, pezzo che ovviamente non può riportare in vita il figlio, ma un dolce brano che gli permette di aggiudicarsi tre Grammy (o quattro se si conta anche quello per il miglior album dell’anno, Unplugged del 1992).
Da lì inizia una nuova vita che porterà Slowhand a fondare ad Antigua nel 1998 il Crossroads Centre (clinica per la disintossicazione da droghe e alcool), a sposarsi nel 2002 con Melia McEnery e a fare il padre di famiglia delle tre figlie avute da questo matrimonio, oltre che della primogenita Ruth, avuta da un’altra relazione precedente a quella con Lory Del Santo.
Ad Antigua si è tenuto diverse volte il Crossroads Guitar Festival, rassegna organizzata da Eric Clapton con incasso devoluto in beneficenza al suo centro. Qui, nell’edizione del 2007, B.B. King ringrazia pubblicamente Eric Clapton per ciò che ha fatto per la musica e per il blues… proprio come fa Slowhand all’inizio di Life In 12 Bars, dove ringrazia il grande bluesman all’indomani della sua scomparsa.
 
Le cronache recenti, e non riportate all’interno del docufilm, parlano di un Clapton affetto da neuropatia periferica, una malattia degenerativa che per un periodo lo ha costretto a stare su una sedia a rotelle e ad annullare alcuni concerti.
Lo stesso Slowhand ha inoltre dichiarato di recente di volersi ritirare dalle scene (sebbene non sia la prima volta che lo afferma in carriera) e di avere problemi di sordità… ma, malgrado tutto, si sta preparando per un live il prossimo 8 luglio a Hyde Park a Londra che si preannuncia epico, vista anche la presenza di Steve Winwood, Santana e Gary Clark Jr.
Perché in fondo il blues può essere sempre un’ancora di salvezza, soprattutto se è una ragione di vita…
 

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