12/12/2013

Mauro Ermanno Giovanardi

Il leggendario hotel newyorchese diventa uno spettacolo teatrale e un doppio cd. Perché, più che un albergo, è «il prolungamento dei nostri sogni»

Il Chelsea Hotel non è stato un albergo come gli altri. Il Chelsea Hotel è stato prima di tutto un luogo leggendario frequentato da musicisti, poeti e artisti di ogni genere, spesso ospitati gratis perché non potevano permettersi di pagare. L’albergo, situato in un quartiere bohèmien di Manhattan, dà anche il titolo a uno spettacolo teatrale qui riproposto su doppio cd. Il giornalista musicale e scrittore Massimo Cotto, nella registrazione effettuata durante lo show del 2 febbraio 2013 in un Teatro Alfieri di Asti esaurito in ogni ordine di posto, racconta le vicende di un luogo nel quale sono transitati artisti del calibro di Leonard Cohen, Sid Vicious, Édith Piaf, Patti Smith, Bob Dylan e tanti altri. Le sue descrizioni, da innamorato del rock e allo stesso tempo da testimone e cronista lucido, tendono a ricostruire alcuni momenti e a descrivere i protagonisti che si sono avvicendati nell’albergo realmente esistito, ma apparentemente fuori da qualsiasi logica connessa con lo spazio e con il tempo.

Le storie vissute nel Chelsea Hotel sono tradotte musicalmente da Mauro Ermanno Giovanardi. L’ex Giò dei La Crus, con la sua voce rispettosa e diretta, viene aiutato qui dal chitarrista-pianista Matteo Curallo a fungere simultaneamente da contorno e da parte fondamentale del racconto. Il narratore a volte sembra tornare direttamente all’interno del Chelsea Hotel e in alcune delle sue stanze, in altri casi invece tenta di fare luce su quelle scene ambientate tra gli anni ’60 e gli anni ’70. E il suo diario di viaggio si riempie di ricordi che spesso si accavallano l’uno con l’altro, anche se poi ci pensa lui stesso a rimettere in ordine il susseguirsi dei fatti.

Lo spettacolo è strutturato in maniera semplice: una stanza e l’artista che l’ha frequentata costituiscono il punto di partenza delle singole storie, cui segue il brano di riferimento. Correlato ai due cd c’è poi un libretto contenente tutta la parte teatrale, da cui ci si può anche distaccare progressivamente man mano che il racconto va avanti, o che viceversa si può leggere come se fosse un’opera a sé stante. E allora si passa dai dolori degli ultimi giorni vissuti da Sid Vicious e Nancy Spungen nella stanza n. 100 (che i fan hanno visitato per anni in pellegrinaggio, ma che è stata chiusa perché da lì venivano portati via sistematicamente oggetti/cimeli) alle gioie – strano a dirsi – di Édith Piaf che lì «si è illusa di poter essere felice e di avere una vita che assomigliasse a una vita normale».

Musicalmente, dall’intro sorniona di Femme Fatale si giunge a brani come Albergo a ore di Herbert Pagani (traduzione di Les amants d’un jour di Édith Piaf), qui molto teatralizzata e particolarmente adatta alla situazione. Se l’atmosfera inizialmente è più ovattata, con il secondo cd diventa più coinvolgente. Affascinante a tal proposito è la storia di Patti Smith che già nell’autobiografico Just Kids ricorda il Chelsea come «una casa di bambole ai confini della realtà con un centinaio di stanze, ciascuna un piccolo universo». E lo spettacolo prende definitivamente ritmo con Dancing Barefoot. C’è poi Bob Dylan che è passato di lì e che prese il suo cognome d’arte da Dylan Thomas, poeta che sempre lì morì alcolizzato.

Ma la descrizione più efficace del Chelsea Hotel rimane quella di Arthur Miller, il quale ha vissuto nell’albergo per sei anni per cercare di liberarsi dall’ossessione per la sua ex moglie Marilyn Monroe. «Non appartiene all’America», dice. «Non ci sono aspirapolvere, né regole e vergogna… È un luogo surreale. Con cautela, ho sollevato i piedi per muovermi tra gli ubriaconi insanguinati svenuti sul marciapiede. Ed ero felice. Ero testimone di come un nuovo tempo, gli anni ’60, stesse barcollando dentro il Chelsea con gli occhi iniettati di sangue. Il Chelsea sembrava combinare due atmosfere: un caos spaventoso e ottimista che prediceva il futuro hip, e allo stesso tempo il tradizionale senso della famiglia che protegge e ripara». L’albergo era gestito in quel modo perché il proprietario Stanley Bard rivolgeva la parola solo ai tipi bizzarri e agli artisti, anche qualora non fossero famosi e spiega Massimo Cotto che «non lo faceva per atteggiamento o nella speranza di poterne ricavare un giorno dei vantaggi economici. Per Bard quelle erano le persone normali. Era con gli altri che si trovava a disagio. Era il magico mondo alla rovescia degli anni ’60».

A un certo punto i riferimenti temporali non sembrano nemmeno così indispensabili, ma rimangono chiari e la storia vera assume ugualmente i tratti della leggenda senza tempo. Ma ora quella medesima storia non può più proseguire. Il Chelsea Hotel infatti è stato venduto per 80 milioni di dollari ai giapponesi e sta per diventare un residence di lusso «dove si respirerà ricchezza ma non leggenda», dice Massimo Cotto quasi in conclusione e aggiunge che il Chelsea «non è soltanto un hotel, il prolungamento dei nostri sogni, l’arte che non dorme mai, il canto che non smette, il respiro più profondo. È qualcosa di cui non possiamo fare a meno di innamorarci». Amen.

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