04/07/2022

Pearl Jam – La recensione del concerto di Imola

Lo scorso 25 giugno i Pearl Jam sono stati a Imola per il loro concerto a quattro anni esatti dall’ultima data italiana

 

DOVE ERAVAMO RIMASTI?

(IT’S BETTER THAN THE DREAM)

 

I PEARL JAM E L’ITALIA

Il rapporto dei Pearl Jam con l’Italia è qualcosa di autentico e consolidato e trascende la retorica dei concerti, quella per cui il frontman di turno non può esimersi dal blandire il pubblico con complimenti vari, possibilmente nella loro lingua.

Si tratta di una affinità elettiva di cui si può intravedere l’imprinting in quell’esibizione di trent’anni e quattro mesi or sono al Sorpasso di Milano, una performance in cui il sudore e le emozioni della band si sono letteralmente fusi con quelli del pubblico, non più di 150 persone accalcate a ridosso del minuscolo palco, a formare una sorta di brodo primordiale in cui sviluppare un legame particolare, cresciuto via via negli anni e nutrito da concerti spesso indimenticabili e che li ha portati a privilegiare sovente il bel paese, unico, per dirne una, a ospitare nel 2006 ben cinque date del loro tour, celebrate con il DVD Picture In A Frame.

E sebbene l’italiano di Eddie Vedder, a dispetto degli sforzi ormai trentennali, farebbe inarcare entrambe le sopracciglia agli accademici della Crusca, è un fatto che il nostro non manchi mai di estrarre il fatidico foglio A4 con gli appunti a pennarello, quasi sempre reggendo nell’altra mano una bottiglia di vino rosso. Insomma un copione magari un poco stucchevole ma genuino, reiterato anche lo scorso sabato 25 giugno a Imola, a quattro anni esatti dall’ultima data italiana (Roma, 26 giugno 2018, per i più precisi).

 

“L’AMICO RITROVATO”

Davanti a una great fucking crowd di 60mila persone apparentemente incuranti di sfrigolare come altrettanti hamburger sulla griglia di asfalto del paddock (a proposito, ma chi sceglie le location è mai stato a un concerto?) e dopo un incipit da togliere il respiro a Marcel Jacobs (Corduroy, Even Flow, Why Go), Eddie ha raccontato di un sogno ricorrente avuto durante il Covid. Manco a dirlo sognava di essere in Italia. “E ora, eccomi qua”, ha proseguito, incalzando il parterre, “è un sogno? È vero? Siete qui?… È meglio del sogno”.

In effetti, se volessimo dare un titolo a questa esibizione (e con il permesso di Fred Uhlman), questo potrebbe essere L’Amico Ritrovato, tante sono state le espressioni di una tenera ma caparbia volontà di ricucire un legame importante, interrotto ma non spezzato da un dramma di immani dimensioni. Dalla scelta dei brani, con la sempre toccante Come Back dedicata al fratello morto di un fan italiano (chi ha perso qualcuno non può non provare brividi di commozione quando sente la voce di Eddie cantare “… e ogni notte vado a letto con la speranza di incontrarti nei miei sogni”), e la raramente eseguita Save You (“perché ti fai del male? Fallo a me, piuttosto”), alla ripetuta preoccupazione per l’incolumità delle prime file che ha persino portato alla interruzione di Seven O’Clock.

Verrebbe quasi da chiedersi: è questa la stessa persona che si lanciava sul pubblico o si arrampicava sulle impalcature durante gli assolo di Mike McReady? Ma gli anni passano e vivaddio si portano via i capelli ma in cambio ti portano anche un po’ di saggezza. I ragazzi sono alle soglie dei sessanta e molti di loro sono padri da tempo. E poi c’è la tragedia di Roskilde: un fardello con cui puoi solo augurati di imparare a convivere.

 

IL CONCERTO

Detto questo, il concerto fila via liscio e compatto, due ore e mezza di musica praticamente ininterrotta. Una esibizione forse non particolarmente ricca di acuti (tra questi, senza dubbio Betterman, al termine della quale giurerei di aver visto le chitarre di Mike e Eddie fumare), ma di una compattezza granitica.

Pochi episodi acustici (Elderly Woman Behind the Counter In A Small Town, Daughter che poi sfocia in W.M.A.), nessuna cover ma un paio di citazioni (Beast of Burden degli Stones in Betterman e People Have the Power di Patti Smith in Daughter), ma energia ed empatia distribuite a piene mani da un gruppo di grandi amici ed eccellenti musicisti, incluso il solito compagno di tour Kenneth Boom Gaspar alle tastiere e la novità Josh Klinghoffer, polistrumentista ex Red Hot Chili Peppers e molto altro (da ultimo, l’importante contributo al disco solista di Vedder Earthlings e al relativo tour).

Per la scaletta, i PJ hanno attinto a quasi tutti i loro album, solo Binaural e Backspacer non sono stati citati, eseguendo in tutto 23 canzoni, di cui quattro del più recente Gigaton, altrettante da Yeld e ben sei dell’immortale Ten (a tutt’oggi il loro disco più venduto, ma quelli erano i tempi del boom del Grunge). Ad aprire la serie dei bis, coerentemente, State of Love and Trust, una canzone sui rapporti tra le persone scritta da Eddie dopo aver letto la sceneggiatura di Singles, il film di Cameron Crowe manifesto del Grunge che vedeva i PJ tra i tanti protagonisti della scena di Seattle. Un po’ più prevedibili i brani successivi: l’immancabile Black, una travolgente Betterman, Alive (la canzone che li ha rivelati al mondo) e infine Yellow Leadbetter, brano che chiude la quasi totalità dei loro concerti.

 

SALUTI FINALI

Non a caso, dopo che la maltrattatissima Fender di Mike McReady ha emesso gli ultimi rantoli, i saluti della band sono stati subito recepiti come definitivi e la folla ha preso a scemare sulla via di casa. Intendiamoci, erano persone felici (sì, felici) quelle con cui ci siamo ritrovati a camminare sull’asfalto non più rovente di Imola, ma più della caratteristica euforia da fine concerto, dai volti sorridenti dei fan traspariva una quieta sensazione di riconquistata serenità, quella, appunto, di chi ha appena ritrovato un amico. Anzi cinque.

 

(Pearl Jam; foto di Danny Clinch)

Pearl Jam - Recensione del concerto di Imola

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