02/10/2014

U2, punto della situazione con Andrea Morandi

“Songs Of Innocence”, il marketing e i megashow. Questo – e molto altro ancora – nell’intervista con l’autore di “U2. The Name Of Love”
Andrea Morandi è un giornalista e critico musicale, collaboratore del quotidiano “La Repubblica” e di “Ciak”, nonché autore del libro U2. The Name Of Love. Testi Commentati edito nel 2009 da Arcana. Con lui abbiamo voluto parlare del nuovo album della band irlandese, Songs Of Innocence, al centro delle polemiche per la modalità inedita con cui è arrivato agli utenti (vedi news). Una (abile e al contempo contestata) mossa di marketing che ha spostato l’attenzione sull’operazione commerciale in sé e, probabilmente, un po’ ha offuscato la proposta musicale di questo nuovo disco degli U2, incentivando le solite “tifoserie” e commenti forse un po’ troppo superficiali e poco ponderati. Ecco quindi lo scambio di mail che abbiamo avuto con Andrea Morandi, uno dei massimi esperti in materia nel nostro Paese: un’intervista che ha l’obiettivo di provare a ragionare su Songs Of Innocence senza preconcetti o pregiudizi di sorta.  
 
L’uscita di Songs Of Innoncence rappresenta l’evento musicale del 2014 con The Endless River dei Pink Floyd. Circa cinquecento milioni di persone nel mondo se lo sono ritrovati (a propria insaputa) e gratuitamente nei telefoni, nei tablet e nei computer senza avere possibilità di scelta. Partendo da questo dato di fatto, secondo te, vista la mole immensa di critiche, esiste un pregiudizio di fondo verso gli U2? Oppure è stata semplicemente una mossa di marketing sbagliata e azzardata?
Piaccia o meno, la mossa di marketing è stata azzeccata, perché ha permesso di arrivare a milioni di persone nel lampo di un istante. Gli ultimi dati dicono che oltre 40 milioni di persone lo hanno scaricato e, se si calcola che The Joshua Tree – l’album più venduto degli U2 – si è fermato a 27 milioni di copie, la ragione torna a Bono e soci. Detto questo, gli U2 da anni sono vittima di un forte pregiudizio, anche per colpa loro – sia chiaro – accusati di gigantismo rock, di arroganza e di mania di grandezza. In questo caso però ho sentito parlare molto, troppo, della cornice e poco del quadro.
 
Da un punto di vista stilistico pensi che Songs Of Innocence sia un ritorno al passato oppure abbia un sound più contemporaneo?
Penso sia un disco in equilibrio tra ieri e oggi e che trae la sua forza, oltre che dal suono, dall’unità tematica, da questa sorta di Alla ricerca del tempo perduto in chiave dublinese, un’opera che mescola Blake, Proust e i Ramones, Joe Strummer e l’Irlanda degli anni Settanta, i sogni e i ricordi. Il problema vero è che Songs Of Innocence è vittima innocente proprio di un pregiudizio, ovvero dell’idea che gli U2 non sono più quelli di una volta quindi valgono mezzo ascolto. E magari anche di fretta. Ho letto troppe recensioni pubblicate a mezz’ora dall’uscita dal disco.
 
Credi che in Songs Of Innocence siano stati coinvolti troppi produttori e, per questo, il risultato finale sia stato tutto sommato abbastanza altalenante? Perché non affidarsi totalmente a Danger Mouse?
La questione dei troppi produttori c’è sempre stata, ai tempi di Pop fu addirittura peggio. Danger Mouse avrebbe sicuramente dato più omogeneità. I tre pezzi conclusivi del disco sono i migliori, ma forse temevano di risultare troppo poco accessibili per la loro “ossessione del momento”.
 
Pensi che di questo album ricorderemo qualche brano? 
Io credo che ne ricorderemo molti, soprattutto se poi li metteranno in scaletta nel tour nel 2015. Secondo me sono almeno cinque i pezzi che potrebbero diventare dei classici: Sleep Like A Baby, Cedarwood Road, Iris, Song for Someone e The Troubles. Ma ci devono credere e eseguirli in concerto, altrimenti fanno la fine di perle come Cedars of Lebanon o The Wanderer.
 
Il singolo The Miracle (of Joey Ramone) non sembra “uno dei pezzi più ispirati”. Perché scegliere proprio un brano del genere come primo estratto dell’album?
Perché continua nella tradizione del rock più muscolare e fisico iniziata nel 2000 con Beautiful Day e proseguita poi con Vertigo e Get On Your Boots, come se gli U2 avessero bisogno di un primo singolo facile e comprensibile a tutti. Non è vero. Questa scelta l’ho sempre contestata: ricordo quando uscì il primo singolo di Zooropa, con Edge che cantava e Bono che quasi non si sentiva. Coraggio puro e un video al limite dell’azzardo.
 
Continuano a rincorrersi solo voci riguardo al tour con conferme e relative smentite, come era accaduto per l’uscita del disco. Ritieni che la musica degli U2 (e per gli U2 stessi) stia diventando un semplice accessorio o un contorno?
Questa questione è diventata un punto di forza per i detrattori degli U2, con la musica ridotta a spot, accessorio, prodotto, solo marketing. Eppure basta ascoltare il disco, leggere i testi, per capire la centralità che la musica degli U2 ha negli U2, è il loro cuore, le loro gambe, la loro testa. Dire che la musica degli U2 è accessoria significa non aver ascoltato Songs Of Innocence, significa avere un’opinione precotta che non si vuole modificare.
  
Si sa qualcosa riguardo al nuovo album di cui Bono e soci parlavano, Songs Of Experience?
Troppo e nulla. L’idea è di fare come il volume di poesie di William Blake, intitolato proprio Songs of Innocence and of Experience.
 
Senza tutte le voci, le mosse di marketing, i megashow dal vivo secondo te gli U2 sarebbero sempre gli stessi? 
Tutto fa parte degli U2, anche le scelte sbagliate, le mosse azzardate e gli show malati di gigantismo come il 360. Loro sono tutto questo e il contrario, sono la band di bulli irlandesi che vuole spaccare il mondo e allo stesso tempo sono ancora i quattro amici uniti dal dolore nel 1976, sono quelli di Joshua Tree e di Pop, l’errore è non capire questo. La loro forza – a trentotto anni dagli inizi – rimane la loro identità, fortissima, mai rinnegata, con le radici a Dublino e in quei sogni fatti quarant’anni fa. Basta ascoltare Cedarwood Road: è tutto lì dentro.
  
C’è qualche affinità tra l’operazione degli U2 e quella di Thom Yorke? E’ una moda odierna delle rockstar e popstar – basti pensare anche a Beyoncé – oppure una necessità dell’era digitale in cui tutto dev’essere accessibile a tutti?
Credo sia inevitabile che un artista si faccia delle domande sulla fruizione della musica. Ha ancora senso parlare di distribuzione e date d’uscita se in un minuto puoi essere ovunque? Mi sorprendo solo che gli U2 ci abbiano messo tanto a capirlo, visto che con lo ZooTvTour avevano predetto già quello che sarebbe successo, l’invasività di media, pubblicità e tecnologia.
 
Che cosa ti aspetti nel prossimo futuro dagli U2?

Che facciano un tour più ridotto del 360, che era inutilmente gigante per quanto affascinante. E che seguano la linea tracciata dal disco, un ritorno al passato anche nei live. Si parla già di palazzetti e non di stadi. Sarebbe una buona notizia, staremo a vedere. Senza dubbio sarebbe un modo interessante di (ri)vedere gli U2.

 
 
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