14/11/2013

Velvet Underground, White Light/White Heat

Dopo l'”album della banana”, Andy Warhol torna a collaborare con Lou Reed e John Cale. A prima vista firma una non-copertina. E invece…

«Ai tempi di White Light/White Heat le nostre vite erano nel caos. E questo si è riflettuto nell’album», ha dichiarato il chitarrista Sterling Morrison. E tutto ciò si può notare anche dalla copertina e dal suo messaggio “chiaramente scuro”. Sfondo completamente nero, nome del gruppo e titolo dell’album in bianco. A prima vista sembrerebbe una “non copertina”. Con questa immagine si presenta White Light/White Heat (Verve, 1968), seconda fatica discografica dei Velvet Underground. Il concept dell’artwork è di Andy Warhol, si tratta di una delle sue ultime collaborazioni con il gruppo. Il genio della Pop Art non assiste alle registrazioni, avvenute nel mese di settembre 1967 (l’album sarà pubblicato all’inizio del 1968). Così come non fa più parte del progetto Nico, che sta intraprendendo una carriera solista.

Speed (la droga più in voga nella Factory), Edgar Allan Poe, sesso, eroina e omosessualità sono i temi principali del disco, dalla title track fino agli oltre diciassette minuti di Sister Ray. È tutto cupo. Dopo la Summer Of Love di quello stesso 1967, i Velvet Underground si presentano in controtendenza. Il distacco è netto rispetto al mondo psichedelico e a quell’estate californiana. Lou Reed e soci rappresentano qui la faccia oscura del mondo lisergico grazie alle loro descrizioni di una realtà decadente. Punk con circa dieci anni di anticipo, i Velvet Underground di White Light/White Heat sono inquietanti e macabri, l’opposto del flower power. E la “non copertina” costituisce l’espressione di tale stato d’animo.

Eppure, osservando più attentamente la cover, si nota un particolare: nell’angolo in basso a sinistra, si vede in controluce un teschio trapassato da un coltello. L’immagine in realtà corrisponde al tatuaggio sul braccio destro dell’attore Joe Spencer, protagonista del film di Warhol Bike Boy (1967). L’autore dello scatto è Billy Name, uno dei fotografi della Factory.
Sarà difficile riprodurre quella stessa atmosfera con stampa e inchiostro di diverse tonalità di nero nelle ristampe successive, le quali rimangono dunque tutte nere senza il teschio in trasparenza (e saranno quelle le autentiche “non copertine”). Nell’edizione uscita nel 1971 in Inghilterra, poi, la cover è stata sostituita da una foto in bianco e nero di un gruppo di soldatini giocattolo, concepita da Hamish Grimes.

Il disco raggiunge la 199esima posizione della classifica di Billboard e ci rimane per due settimane consecutive, per poi non rientrarci più. Rolling Stone non lo vuole recensire. Le radio non lo vogliono trasmettere. Insomma, non sarà un successo, eppure diventerà un album fondamentale per la storia della musica. Ultima curiosità: nel 1990 Lou Reed e John Cale, le due anime dei Velvet Underground, si sono riuniti per rendere omaggio a Andy Warhol con Songs For Drella (Sire, 1990). Drella era un soprannome (incrocio tra Dracula e Cinderella) che stava a indicare due lati opposti dell’ideatore della Factory. In copertina si vede una foto dei due autori dell’album scattata dallo stesso Warhol e in controluce stavolta non c’è un teschio, ma il genio della Pop Art. L’omaggio – anche con la cover – arriva proprio nel momento in cui Reed e Cale si ritrovano a lavorare insieme su materiale inedito, come non accadeva proprio da White Light/White Heat. Un po’ come se i due volessero dire: «Riprendiamo da dove eravamo rimasti»…

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