02/10/2017

Yusuf / Cat Stevens

A 50 anni dal disco d’esordio, nel nuovo album Cat Stevens si riconcilia col passato attraverso undici brani di folk acustico
A tre anni di distanza da Tell ‘Em I’m Gone ritorna Yusuf Islam, in questo caso con il ritorno, in copertina, anche del nome d’arte originale Cat Stevens.
Il primo elemento che salta agli occhi è proprio la volontà di riappropriarsi del passato, a partire dalla decisione del doppio nome “Yusuf / Cat Stevens” per arrivare al disegno di copertina, che riprende l’immaginario da fiaba di Tea For The Tillerman del 1970.
Anche il chitarrista storico dell’epoca Alun Davies impreziosisce diversi brani col suo graditissimo ritorno e, dopo aver affidato la produzione del disco precedente a Rick Rubin, per The Laughing Apple Stevens si è rivolto nuovamente a Paul Samwell-Smith, il produttore dei suoi album degli anni ’70.
 
Sono passati 50 anni dall’album di debutto e 40 dalla conversione all’Islam per Stevens, che di fatto coincise con la fine della sua carriera, prima del ritorno nel 2006 con An Other Cup. E proprio dal disco di 50 anni fa, New Masters, sono tratte quattro canzoni in versione ri-arrangiata, principalmente acustiche e decisamente ingentilite, tra cui la dolce The Laughing Apple e le belle Blackness Of The Night e I’m So Sleepy.
Stevens pesca dal passato anche con Mighty Peace, uno dei primi brani che compose da adolescente, mentre ancora suonava per le strade di Londra nei primi anni ’60. Così come il racconto acustico di Mary And The Little Lamb è dello stesso periodo, pur essendo nota soltanto sotto forma di demo. You Can Do (Whatever) ha la sua origine invece nelle registrazioni per la colonna sonora del film Harold and Maude del 1971.
 
I brani più datati, opportunamente rivisitati, si conciliano comunque alla perfezione con le canzoni nuove, che si muovono sempre come docili brani folk acustici, adatti alla voce di Stevens, magari non più acuta come un tempo, ma più matura.
La nuova See What Love Did To Me parla di amore umano e divino, un tema che gli è sempre stato caro, e anche in Don’t Blame Them si può leggere una favola con implicazioni forse religiose. Nella dolce Grandsons riflette invece sulla velocità con cui il tempo passa, una possibile metafora per l’accettazione del passato, musicale e non, che è senz’altro avvenuta in questo nuovo album.
 

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