Il risultato finale è il primo doppio album della storia del rock, quello con la copertina sfocata e senza titolo, quello che si apre con Rainy Day Women #12 & 35, quello con Visions Of Johanna, I Want You o Just Like A Woman. Quello che si intitola Blonde On Blonde.
La sua unicità non è rappresentata solo dal cospicuo numero di brani presenti al suo interno, ma dalla solita ricerca che porterà il singer songwriter per eccellenza a registrare addirittura a Nashville per proseguire un percorso divenuto ormai “elettrico”. Il viaggio di Bob Dylan nella terra associata prevalentemente al country e la meticolosità del suo lavoro, caratterizzato anche da pause lunghe alcuni giorni prima di partorire un’idea e di registrare, è ben raccontato da Daryl Sanders in Un sottile, selvaggio suono mercuriale, libro pubblicato anche in italiano da Jimenez con la traduzione a cura di Alessandro Besselva Averame.
E’ il 1966 quando viene pubblicato Blonde On Blonde, un album che doveva essere l’ideale seguito di Highway 61 Revisited e che chiude così una trilogia elettrica iniziata con Bringing It All Back Home. Tante sono le testimonianze raccolte negli anni dall’autore del libro, a partire dalle interviste personali, sino ad arrivare a quelle presenti nelle numerose fonti consultate per fare chiarezza su uno dei tanti tasselli della storia che ha reso grande il Premio Nobel per la Letteratura 2016.
Durante le session di Highway 61 Revisited nel 1965, Dylan si trovava in studio a New York con il produttore Bob Johnston. La vita e il lavoro a Nashville di quest’ultimo innescheranno successivamente il primo incontro concreto di Bob Dylan con la capitale dello Stato del Tennessee, perché proprio Johnston chiederà al polistrumentista Charlie McCoy di suonare la chitarra su Desolation Row. Dopo quel primo avvicinamento, Bob Dylan si ritroverà quindi a Nashville per registrare Blonde On Blonde con alcuni musicisti del luogo noti come Nashville Cats. Tanti si erano già recati a Nashville a registrare come Elvis Presley, Buddy Holly, Gene Vincent, addirittura i Beach Boys, tanti si recheranno lì dopo Dylan tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 come Simon & Garfunkel, Leonard Cohen, Byrds o Paul McCartney. E l’incontro con Nashville nasce senza dubbio dall’intraprendenza del produttore Bob Johnston, ma il “suggerimento” di Johnny Cash e le frequentazioni tra i due narrate nel prologo del libro costituiscono il primo passo verso il capolavoro Blonde On Blonde.
Tra le parti più volte riprese all’interno di Un sottile, selvaggio suono mercuriale, quelle relative a Visions Of Johanna, il cui testo viene pubblicato prima che uscisse addirittura sul numero di giugno 1966 della rivista di moda Glamour. Secondo il critico musicale Greil Marcus in un saggio apparso sul Guardian nel 2008 “l’aspetto insolito dell’intera faccenda era che il testo funzionava sulla pagina di Glamour così com’era: spoglio, senza accompagnamento, senza una voce che lo cantasse, pura poesia”.
Più avanti anche il rocker britannico Robyn Hitchcock dice la sua in merito a Visions Of Johanna, un brano che gli ha fatto comprendere di dover “alzare l’asticella” e che gli ha trasmesso la voglia “non tanto di riscrivere Visions Of Johanna, quanto di scrivere canzoni che avessero almeno in parte la capacità di comprendere la vita che possiede Visions Of Johanna”.
Anche questo è stato fondamentale per giungere a ciò che Dylan avrebbe definito in un’intervista pubblicata su Playboy nel marzo del 1978 “quel sottile, selvaggio suono mercuriale, metallico e lucente”.
La sua unicità non è rappresentata solo dal cospicuo numero di brani presenti al suo interno, ma dalla solita ricerca che porterà il singer songwriter per eccellenza a registrare addirittura a Nashville per proseguire un percorso divenuto ormai “elettrico”. Il viaggio di Bob Dylan nella terra associata prevalentemente al country e la meticolosità del suo lavoro, caratterizzato anche da pause lunghe alcuni giorni prima di partorire un’idea e di registrare, è ben raccontato da Daryl Sanders in Un sottile, selvaggio suono mercuriale, libro pubblicato anche in italiano da Jimenez con la traduzione a cura di Alessandro Besselva Averame.
E’ il 1966 quando viene pubblicato Blonde On Blonde, un album che doveva essere l’ideale seguito di Highway 61 Revisited e che chiude così una trilogia elettrica iniziata con Bringing It All Back Home. Tante sono le testimonianze raccolte negli anni dall’autore del libro, a partire dalle interviste personali, sino ad arrivare a quelle presenti nelle numerose fonti consultate per fare chiarezza su uno dei tanti tasselli della storia che ha reso grande il Premio Nobel per la Letteratura 2016.
Durante le session di Highway 61 Revisited nel 1965, Dylan si trovava in studio a New York con il produttore Bob Johnston. La vita e il lavoro a Nashville di quest’ultimo innescheranno successivamente il primo incontro concreto di Bob Dylan con la capitale dello Stato del Tennessee, perché proprio Johnston chiederà al polistrumentista Charlie McCoy di suonare la chitarra su Desolation Row. Dopo quel primo avvicinamento, Bob Dylan si ritroverà quindi a Nashville per registrare Blonde On Blonde con alcuni musicisti del luogo noti come Nashville Cats. Tanti si erano già recati a Nashville a registrare come Elvis Presley, Buddy Holly, Gene Vincent, addirittura i Beach Boys, tanti si recheranno lì dopo Dylan tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 come Simon & Garfunkel, Leonard Cohen, Byrds o Paul McCartney. E l’incontro con Nashville nasce senza dubbio dall’intraprendenza del produttore Bob Johnston, ma il “suggerimento” di Johnny Cash e le frequentazioni tra i due narrate nel prologo del libro costituiscono il primo passo verso il capolavoro Blonde On Blonde.
Tra le parti più volte riprese all’interno di Un sottile, selvaggio suono mercuriale, quelle relative a Visions Of Johanna, il cui testo viene pubblicato prima che uscisse addirittura sul numero di giugno 1966 della rivista di moda Glamour. Secondo il critico musicale Greil Marcus in un saggio apparso sul Guardian nel 2008 “l’aspetto insolito dell’intera faccenda era che il testo funzionava sulla pagina di Glamour così com’era: spoglio, senza accompagnamento, senza una voce che lo cantasse, pura poesia”.
Più avanti anche il rocker britannico Robyn Hitchcock dice la sua in merito a Visions Of Johanna, un brano che gli ha fatto comprendere di dover “alzare l’asticella” e che gli ha trasmesso la voglia “non tanto di riscrivere Visions Of Johanna, quanto di scrivere canzoni che avessero almeno in parte la capacità di comprendere la vita che possiede Visions Of Johanna”.
Anche questo è stato fondamentale per giungere a ciò che Dylan avrebbe definito in un’intervista pubblicata su Playboy nel marzo del 1978 “quel sottile, selvaggio suono mercuriale, metallico e lucente”.