Se le sfumature della voce di Aldous Harding fossero dei colori, sarebbero dei pastelli. Infiniti gradi di pastelli, a differenza della copertina del suo nuovo disco Designer che si presenta minimale: un titolo verticale bianco su nero.
Sinonimo, probabilmente, di un lavoro più consapevole, di una maturità artistica che sa dare confini sintetici alle numerose suggestioni sonore che contraddistinguono la cantautrice neozelandese.
Una componente dominante nel terzo lavoro della Harding è sicuramente quella corale, che conferisce alle armonie vocali un ruolo centrale e potente nell’economia del linguaggio sonoro. Il ruolo è quello profondamente evocatore, a tratti ipnotizzante. Designer non evoca nulla di preciso. Sembra voler portare l’ascoltatore in un labirinto di mood senza coordinate spazio-temporali. Il linguaggio di Aldous Harding, filtrato dalla produzione tutta britannica di John Parish, sembra richiamare gli eterogenei e fiabeschi paesaggi dell’isola in cui la Harding è cresciuta, e quelli gallesi che l’hanno adottata.
Designer si apre con i confini melodici e precisi di Fixture Picture, poi con la title-track tira fuori un carisma pop, e continua con un’altalena tra suoni cupi e luminosi per tornare sempre ad atmosfere più larghe ed eteree. Improvvisamente può capitare di perdere l’orientamento per poi riconoscersi in una ballata, come in Damn, dall’intro classico e sofisticato, che rompe l’equilibrio della prima parte del disco, e apre le porte ai nuovi orizzonti stilistici della cantautrice.
Il terzo lavoro della giovane Aldous si chiude con la nudità di Pilot, piano e voce, accordi minori che depistano gli ascoltatori più ingenui, seminando una traccia amara, fredda, che, in ogni caso, lascia spazio al calore che attraversa l’intero disco.
L’impronta malinconica si presenta, in questo lavoro, leggera e delicata, sottratta alla forza di gravità, proprio come il “Weight Of The Planets” di cui la stessa Harding, canta.
Sinonimo, probabilmente, di un lavoro più consapevole, di una maturità artistica che sa dare confini sintetici alle numerose suggestioni sonore che contraddistinguono la cantautrice neozelandese.
Una componente dominante nel terzo lavoro della Harding è sicuramente quella corale, che conferisce alle armonie vocali un ruolo centrale e potente nell’economia del linguaggio sonoro. Il ruolo è quello profondamente evocatore, a tratti ipnotizzante. Designer non evoca nulla di preciso. Sembra voler portare l’ascoltatore in un labirinto di mood senza coordinate spazio-temporali. Il linguaggio di Aldous Harding, filtrato dalla produzione tutta britannica di John Parish, sembra richiamare gli eterogenei e fiabeschi paesaggi dell’isola in cui la Harding è cresciuta, e quelli gallesi che l’hanno adottata.
Designer si apre con i confini melodici e precisi di Fixture Picture, poi con la title-track tira fuori un carisma pop, e continua con un’altalena tra suoni cupi e luminosi per tornare sempre ad atmosfere più larghe ed eteree. Improvvisamente può capitare di perdere l’orientamento per poi riconoscersi in una ballata, come in Damn, dall’intro classico e sofisticato, che rompe l’equilibrio della prima parte del disco, e apre le porte ai nuovi orizzonti stilistici della cantautrice.
Il terzo lavoro della giovane Aldous si chiude con la nudità di Pilot, piano e voce, accordi minori che depistano gli ascoltatori più ingenui, seminando una traccia amara, fredda, che, in ogni caso, lascia spazio al calore che attraversa l’intero disco.
L’impronta malinconica si presenta, in questo lavoro, leggera e delicata, sottratta alla forza di gravità, proprio come il “Weight Of The Planets” di cui la stessa Harding, canta.