04/07/2015

Bob Dylan (dal vivo) è sempre Bob Dylan

Al termine del concerto si volta e se ne va senza dire una parola. D’altronde, dopo le sue canzoni resta davvero qualcosa da dire?
Il cappello che ha in testa somiglia un po’ a quello che indossava nel lontano ’67, quando gironzolava nel giardino della Big Pink house di Woodstock strimpellando la sua chitarra, tra una sessione e l’altra delle storiche registrazioni dei Basement Tapes.
Bob Dylan però ha ormai abbandonato il look alla Huckleberry Finn da un pezzo, e stasera, 2 luglio, veste un distinto abito bianco, che fa il paio con l’elegante scenografia allestita per il pubblico del Pala Alpitour di Torino: un lungo tendone nero a coprire tutto il fondo del palcoscenico, sul quale luci arancioni disegnano fantasie dorate. Riflettori spenti e buio in sala dopo ogni brano, per creare quel pizzico di mistero.
 
Il primo pezzo del concerto è una Things Have Changed dalle tinte western; le cose sono cambiate, certo. Ma Bob Dylan è sempre Bob Dylan, in splendida forma nonostante i settantaquattro anni sulle spalle. Capace come nessuno di infiammare il pubblico quando racconta le sue storie, che stia quasi immobile con le gambe divaricate davanti al microfono, che le soffi dentro l’armonica o le puntelli picchiando sul piano. La voce del Picasso del rock è diventata ancora più roca, ma forse proprio questo le dona un fascino diverso, come se portasse in sé i segni di ciascuna pennellata delle sue tele sonore.
Sembra che al menestrello di Duluth il ruolo di monumento vivente non vada a genio, e tra country rock, blues e un po’ di swing le concessioni ai nostalgici sono davvero poche: She Belongs To Me del ’65, Simple Twist Of Fate e Tangled Up In Blue del ’75. Il resto della scaletta è composto solo da pezzi post duemila, come High Water (For Charley Patton), Beyond Here Lies Nothin’ e Forgetful Heart, Spirit On The Water o Workingman’s Blues #2.
Tanti i brani da The Tempest, la brillante Duquesne Whistle, il blues Early Roman Kings, la struggente Long And Wasted Years – una delle canzoni migliori del concerto – e ancora Pay In Blood, Scarlet Town e Soon After Midnight.
L’allestimento del palco in stile jazz club è perfetto poi per due splendidi pezzi tratti da Shadows Of The Night, l’album-omaggio a Frank Sinatra nel quale Dylan ha saputo reinventarsi ancora una volta come crooner. Full Moon And Empty Arms e Autumn Leaves vengono scelti come chiusura di entrambi i set, e proprio sui versi di Jacques Prevert il pubblico si alza dalla platea dopo due ore di show, per stringersi intorno al palco e godersi un ultimo regalo, l’immancabile Blowin’ In The Wind e il rock fulminante di Love Sick.
 
Dylan è sempre Dylan, e al termine del concerto si volta e se ne va senza dire una parola. D’altronde, dopo le sue canzoni resta davvero qualcosa da dire?
 

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