«Credo fosse il 1986 … Vengo avvicinato da un cantautore emiliano che, nonostante fosse sconosciuto, aveva già un manager. Le sue canzoni mi hanno colpito immediatamente. Ci siamo incontrati qualche settimana più tardi a Roma e ho deciso di aiutarlo. Per un anno, ho proposto il suo demo a tutte le case discografiche italiane.
Niente. Qualcuno mi ha pure dato del matto... Quando ci siamo ritrovati, l’anno successivo, gli ho spiegato che avevo fatto tutto quello che era nelle mie possibilità. Purtroppo, con scarsi risultati. Lui mi ha ringraziato, m’ha detto che, qualora avessi voluto continuare ad aiutarlo lui ne sarebbe stato felice ma che non poteva lasciarmi l’esclusiva.
Dopo non molto, ho saputo che Angelo Carrara gli aveva finanziato la produzione di un album: è nata così la carriera di Luciano Ligabue».
Chi parla è Mimmo Locasciulli, uno dei personaggi più curiosi e interessanti del panorama artistico nazionale, “un esempio di passione e dedizione”. Pensate che, nonostante 17 album e più di 40 anni di carriera musicale, non ha mai rinunciato a svolgere la sua professione di medico. Nel suo percorso di cantautore (iniziato nel 1971 al Folk Studio di Roma insieme a Francesco De Gregori e Antonelo Venditti) ha spesso superato i confini della musica italiana: basti pensare alle collaborazioni con Greg Cohen (bassista e musical director di Tom Waits) o Marc Ribot.
Lunedì 21 gennaio 2013, Mimmo Locasciulli era con me allo Shambala (“locanda asiatica con grandi alberi nel centro di Milano”). Nel corso della cena pre-evento mi ha parlato del suo rapporto con Ligabue ma anche dei tempi del Folk Studio («mi sono trasferito a Roma nel 1970 per poter frequentare il locale di Giancarlo Cesaroni») e delle sue divagazioni newyorkesi insieme all’entourage di Tom Waits. Poi, nella puntata del mio programma RockFiles ha dato vita a una bellissima serata nel corso della quale ha condiviso i suoi ricordi con il pubblico regalando anche una manciata di brani accompagnato al contrabbasso da suo figlio Matteo, giunto apposta da Parigi.
Un paio di settimane dopo, mio ospite è stato Ron.
Il suo nuovo album, Way Out, sembra fatto apposta per i miei RockFiles: il cantatutore lombardo ha scelto 12 brani di 12 songwriter contemporanei anglo-americani e li ha tradotti in italiano. Come già aveva fatto in passato con Cat Stevens, Hall & Oates o con la celebre versione di The Road di Danny O’Keefe (via Jackson Browne) diventata Una città per cantare.
Accompagnato da una formidabile violoncellista/vocalit (Giovanna Fumaroli) Ron ha incantato il pubblico con canzoni delicate ( Cannonball di Damien Rice o Gran Torino di Jamie Cullom) suonate benissimo e che convincono anche nella versione in italiano.
E ha ricordato il suo padre artistico, Lucio Dalla, con cui ha scritto tanti successi, da Piazza Grande a Attenti al lupo.
«Quando ho saputo che era morto ho voluto andare a salutarlo per l’ultima volta. Mi sono recato a Losanna, nella camera ardente. Persino dentro la cassa Lucio aveva un’espressione da furbetto … Mi sono ricordato di quelle feste che era solito organizzare, di cui curava i dettagli in modo ossessivo. Era lui che faceva sedere i commensali, spiegava il menu, raccontava che sarebbe accaduto nel corso della serata. Poi, d’improvviso, si scusava dicendo che si sarebbe assentato. Poi … spariva.
Il 1° Marzo di un anno fa, è sparito. Proprio come faceva durante le sue feste».
Prima di Ron, al mio fianco, ci sono stati Cristiano Godano (a parlare di Nick Cave, Kurt Cobain e Neil Young), Cristina Donà a cantare Sinéad O’Connor e Joni Mitchell, Manuel Agnelli a spiegare il suo amore viscerale per Lou Reed. Ma anche Eugenio Finardi a suonare gli Stones, Alberto Fortis a interpretare John Lennon, Bunna a raccontare Bob Marley e Paola Turci a trasformarsi in Patti Smith.
Sono un ragazzo fortunato …