Lo scorso anno fu un enorme successo; per i nomi altisonanti presenti, per la location, per il fascino della città. Sulla scia dell’evento del 2017 eccoci alla seconda edizione del Firenze Rocks, rassegna di ben quattro giorni dove, anche per quest’anno, non sono mancati nomi di spessore del panorama rock e metal. La location è la medesima, la Visarno Arena, situata dentro il Parco delle Cascine nel capoluogo toscano, sulle rive dell’Arno. Gli headliner sono nientemeno che Foo Fighters, Guns N’ Roses, Iron Maiden e Ozzy Osbourne.
La prima giornata vede la band di Dave Grohl come principale protagonista. Si inizia dal pomeriggio con Frank Carter & The Rattlesnakes, autori di un’ottima performance nonostante la mezz’ora scarsa di durata. Nell’ordine ne sono seguiti i Wolf Alice, passati quasi inosservati, pagando forse un contesto non adatto al loro genere, e i The Kills, protagonisti di un concerto senza infamia e senza gloria, ma indubbiamente più consoni al mood dell’evento. Ovviamente i più attesi erano i Foo Fighters, e, semmai ci fosse stato dubbio, i nostri ci mettono molto poco a scaldare il folto pubblico che ha riempito la venue fiorentina: Grohl e soci aprono con Run, seguita da All My Life e Learn To Fly, trascinando i presenti in maniera naturale, fluida e semplice. That’s rock. Il nostro Dave si conferma anche un ottimo intrattenitore; interagisce col pubblico, attraverso un italiano maccheronico quanto apprezzabile, e lo stesso fanno i suoi membri, in particolare Taylor Hawkins, batterista del gruppo statunitense, che si esibisce in una discreta quanto “pericolosa” cover di Under Pressure dei Queen, trattando il brano con il doveroso rispetto. Tutto ciò avviene in un momento dove la band si diverte, e fa divertire il pubblico con delle cover, tra cui Jump dei Van Halen, realizzata sulle note di Imagine di John Lennon, e Blitzkrieg Bop dei Ramones. Ma la vera sorpresa è un’altra: la cover di It’s So Easy dei Guns N’Roses, dove ad accompagnare i Foo Fighters sono proprio Axl Rose, Slash e Duff McKagan dei GNR, per quello che sarà il momento clou della serata, e forse dell’intero evento. Lo show dei FF riprende, attraverso storici brani come Monkey Wrech, Breakout, Best Of You, fino a Everlong, a cui spetta il punto conclusivo della serata. Due ore e poco più per uno show eccellente; chi ha visto almeno una volta i Foo Fighters dal vivo sa bene a cosa si sarebbe andato incontro, e la sensazione che si avverte mentre ci si incammina verso le uscite dell’Arena è quella di aver assistito a qualcosa di difficilmente ripetibile. Dave Grohl, per chi non l’avesse ancora capito, non è più semplicemente l’ex batterista dei Nirvana; è diventato col tempo molto di più, è quello che incarna meglio l’animo rock nel nuovo millennio.
Il secondo giorno offre come headliner i Guns N’Roses, un’altra band che in un lontano passato ha regalato, a cavallo tra la fine degli 80’s e l’inizio dei 90’s, dischi e momenti imprescindibili nella storia dell’hard-rock. Ad aprire questa seconda giornata sono i The Pink Slips, band abbastanza anonima e in particolare nota perché vede nella sua line-up Grace McKagan, figlia del già citato Duff. A loro sono seguiti i Baroness, gruppo sludge-metal della Virginia attivo da una quindicina d’anni e autore di un’esibizione più che buona, e soprattutto i Volbeat, band che all’estero assume spesso il ruolo di headliner nei più importanti festival, ma che in Italia fatica a trovar quella visibilità che merita. Danesi di provenienza, i Volbeat propongono un sound che miscela perfettamente il metal con il rock ‘n’ roll più classico (i brani Sad Man’s Tongue e 16 Dollars ne sono le dimostrazioni più lampanti), ma che il pubblico, in costante attesa dei GNR, ha faticato ad apprezzare; sicuramente, considerati i generi, sarebbero stati più idonei nelle giornate successive. I GNR erano previsti alle 20 come timing, quindi ci si aspettava uno show di minimo tre ore. Puntuali come raramente è accaduto in passato, i californiani sono partiti con il piede schiacciato sull’acceleratore: It’s So Easy, Mr.Brownstone, Welcome To The Jungle sono in cima alla setlist prevista, ma a lungo andare, i “solo” di Slash prendono il sopravvento in maniera eccessiva, facendo in modo che il chitarrista sia l’attore principale dello show, e non Axl, la cui voce, brano dopo brano, inizia a diventar carente. Non mancano i passaggi a vuoto, come l’imbarazzante cover strumentale di Wish You Were Here dei Pink Floyd, ma comunque non mancano momenti più elevati come November Rain o come anche l’omaggio a Chris Cornell con la cover di Black Hole Sun dei Soundgarden. Il finale è un susseguirsi di classici come Nightrain, Patience e Paradise City, con cui i GNR concludono il loro concerto, coadiuvati dai 60-65 mila presenti, che hanno contribuito anche a colmare le pecche vocali del buon Axl. Tre ore e mezzo di concerto con alti e bassi, non era forse il caso di farne due di ore ma di livello quantomeno costante?
Il terzo giorno vede il metal protagonista ed il piatto forte era atteso per la serata con gli Iron Maiden. L’affluenza della giornata è inferiore rispetto alle due precedenti, ma il popolo metal non ha saputo comunque rimaner indifferente a quanto offerto da questo sabato. L’apertura spetta agli Shinedown, seguiti da Jonathan Davis, cantante dei Korn, al momento concentrato sul suo progetto solista, a sua volta seguito dagli Helloween, nome storico del power-metal, alle prese con un tour dove vede protagonisti tutti gli ex membri, tra cui anche gli ex vocalist Kay Hansen e Michael Kiske. La performance del gruppo tedesco resta ineccepibile, come lo sono i loro cavalli di battaglia Dr.Stein, Ride The Sky e I Want Out, dove i presenti non si sono certo risparmiati nell’accompagnare e nel regalare il giusto tributo ad un gruppo imprescindibile. Giunge quindi l’ora degli Iron Maiden, che realizzano quella che sarà la performance più bella dell’intero evento; Bruce Dickinson, storica voce della band, come tutti i suoi cinque compagni di viaggio, è apparso in forma strepitosa, il che non è male dato che parliamo di una persona che tre anni fa ha avuto a che fare con un tumore alla lingua. La setlist proposta è una sorta di “best of” della loro carriera, con qualche piccola sorpresa data la presenza di The Clansman, Revelations o Aces High, brani che non vengono spesso proposti dalla band britannica. Lo show è stato un susseguirsi di cambi di scenografia e in questo il gruppo è maestro da sempre: protagonista è sempre la mascotte Eddie. The Trooper, The Number Of The Beast, Hallowed Be Thy Name sono solo alcune delle perle che i Maiden hanno regalato ai loro fan, fino a Run To The Hills, titolo di coda della serata. Gli Iron Maiden, dall’alto delle circa quaranta primavere alle spalle, raramente hanno fallito in ambito “live” e anche per questa occasione hanno dimostrato di essere tra i più affidabili sul palco. Non servono altre parole per aggiungere ulteriori concetti riguardo questa performance; come loro ogni volta sembrano rinnovarsi, anche gli aggettivi a loro rivolti necessitano di un aggiornamento.
Si giunge così alla quarta e ultima giornata del Firenze Rocks 2018, giornata sempre dedicata al metal con Ozzy Osbourne come protagonista finale. Prima di The Madman non sono mancati altri artisti di livello, anzi. Dopo l’apertura dei Tremonti, progetto solista di Mark Tremonti, chitarrista degli Alter Bridge, a salire sul palco sono arrivati i Judas Priest, storico nome della scena heavy-metal britannica; il gruppo di Rob Halford, che da poco ha pubblicato il disco Firepower, si è reso protagonista di una performance di livello, conclusasi con Painkiller, che ha scaldato ancor di più i presenti nell’area concerti, già di per sé sofferenti per l’ondata di calore che ha investito Firenze nella giornata di domenica. Il loro concerto però ha avuto una durata ridotta, tant’è che da subito si è notata l’assenza nella scaletta delle storiche Living After Midnight e Breaking The Law; questo taglio di scaletta è avvenuta a causa di problemi relativi alla gestione del tour, come comunicato dalla stessa band, che si è scusata attraverso la loro pagina Instagram. A seguire è toccato agli Avenged Sevenfold, band notoriamente più giovane, fresca e ed in costante crescita da diversi anni. La loro è una missione difficile, ovvero quella di suonare tra due divinità del metal. E ne sono usciti alla grande, regalando ai fan un’esibizione molto soddisfacente, riuscendo a soddisfare vecchi e nuovi fan eseguendo brani da tutta la loro discografia, partendo con The Stage, tratta dall’ultimo ed omonimo disco, e concludendo con Unholy Confessions. Arriva quindi il momento di Ozzy; anticipato dai fotogrammi sui maxischermi che mostrano un po’ tutta la carriera di The Oz, lo show è partito con Bark At The Moon, e sin dalle prime note si è notato un Ozzy in ottima forma nonostante le quasi settanta primavere ed una vita nella quale non si è certo fatto mancar nulla. Il pubblico lo segue, è totalmente ipnotizzato da quello sguardo satanico che lo ha portato nel gota degli immortali del metal. La scaletta diventa una sorta di ping pong tra brani del suo percorso solista e brani dei Black Sabbath: No More Tears, War Pigs, Shot In The Dark. Il tutto accompagnato dai suoi ottimi musicisti, in particolare dal chitarrista Zakk Wylde, al momento l’unico in questo genere capace di catturare l’attenzione attraverso i suoi virtuosismi con lo strumento. L’ora e mezza di durata è stata intensa, energica, frizzante, a tratti anche divertente, in particolare quando Ozzy assumeva quel ruolo da leader dei 40mila che affollavano l’arena toscana. Il concerto ha come punto finale la consueta Paranoid e la sensazione che resta ai presenti è quella di aver partecipato a qualcosa di irripetibile.
Si conclude così la seconda edizione del Firenze Rocks, quattro giorni in cui resta quel sentore di aver percorso un viaggio tra il rock e il metal più datato, la cui preziosa eredità è stata raccolta al meglio dalle generazioni successive, come si è evinto dalle varie esibizioni. Nota di merito va anche all’organizzazione: l’evento è stato curato in tutti gli aspetti e i riscontri sembrano, per una volta, quasi tutti positivi.
La prima giornata vede la band di Dave Grohl come principale protagonista. Si inizia dal pomeriggio con Frank Carter & The Rattlesnakes, autori di un’ottima performance nonostante la mezz’ora scarsa di durata. Nell’ordine ne sono seguiti i Wolf Alice, passati quasi inosservati, pagando forse un contesto non adatto al loro genere, e i The Kills, protagonisti di un concerto senza infamia e senza gloria, ma indubbiamente più consoni al mood dell’evento. Ovviamente i più attesi erano i Foo Fighters, e, semmai ci fosse stato dubbio, i nostri ci mettono molto poco a scaldare il folto pubblico che ha riempito la venue fiorentina: Grohl e soci aprono con Run, seguita da All My Life e Learn To Fly, trascinando i presenti in maniera naturale, fluida e semplice. That’s rock. Il nostro Dave si conferma anche un ottimo intrattenitore; interagisce col pubblico, attraverso un italiano maccheronico quanto apprezzabile, e lo stesso fanno i suoi membri, in particolare Taylor Hawkins, batterista del gruppo statunitense, che si esibisce in una discreta quanto “pericolosa” cover di Under Pressure dei Queen, trattando il brano con il doveroso rispetto. Tutto ciò avviene in un momento dove la band si diverte, e fa divertire il pubblico con delle cover, tra cui Jump dei Van Halen, realizzata sulle note di Imagine di John Lennon, e Blitzkrieg Bop dei Ramones. Ma la vera sorpresa è un’altra: la cover di It’s So Easy dei Guns N’Roses, dove ad accompagnare i Foo Fighters sono proprio Axl Rose, Slash e Duff McKagan dei GNR, per quello che sarà il momento clou della serata, e forse dell’intero evento. Lo show dei FF riprende, attraverso storici brani come Monkey Wrech, Breakout, Best Of You, fino a Everlong, a cui spetta il punto conclusivo della serata. Due ore e poco più per uno show eccellente; chi ha visto almeno una volta i Foo Fighters dal vivo sa bene a cosa si sarebbe andato incontro, e la sensazione che si avverte mentre ci si incammina verso le uscite dell’Arena è quella di aver assistito a qualcosa di difficilmente ripetibile. Dave Grohl, per chi non l’avesse ancora capito, non è più semplicemente l’ex batterista dei Nirvana; è diventato col tempo molto di più, è quello che incarna meglio l’animo rock nel nuovo millennio.
Il secondo giorno offre come headliner i Guns N’Roses, un’altra band che in un lontano passato ha regalato, a cavallo tra la fine degli 80’s e l’inizio dei 90’s, dischi e momenti imprescindibili nella storia dell’hard-rock. Ad aprire questa seconda giornata sono i The Pink Slips, band abbastanza anonima e in particolare nota perché vede nella sua line-up Grace McKagan, figlia del già citato Duff. A loro sono seguiti i Baroness, gruppo sludge-metal della Virginia attivo da una quindicina d’anni e autore di un’esibizione più che buona, e soprattutto i Volbeat, band che all’estero assume spesso il ruolo di headliner nei più importanti festival, ma che in Italia fatica a trovar quella visibilità che merita. Danesi di provenienza, i Volbeat propongono un sound che miscela perfettamente il metal con il rock ‘n’ roll più classico (i brani Sad Man’s Tongue e 16 Dollars ne sono le dimostrazioni più lampanti), ma che il pubblico, in costante attesa dei GNR, ha faticato ad apprezzare; sicuramente, considerati i generi, sarebbero stati più idonei nelle giornate successive. I GNR erano previsti alle 20 come timing, quindi ci si aspettava uno show di minimo tre ore. Puntuali come raramente è accaduto in passato, i californiani sono partiti con il piede schiacciato sull’acceleratore: It’s So Easy, Mr.Brownstone, Welcome To The Jungle sono in cima alla setlist prevista, ma a lungo andare, i “solo” di Slash prendono il sopravvento in maniera eccessiva, facendo in modo che il chitarrista sia l’attore principale dello show, e non Axl, la cui voce, brano dopo brano, inizia a diventar carente. Non mancano i passaggi a vuoto, come l’imbarazzante cover strumentale di Wish You Were Here dei Pink Floyd, ma comunque non mancano momenti più elevati come November Rain o come anche l’omaggio a Chris Cornell con la cover di Black Hole Sun dei Soundgarden. Il finale è un susseguirsi di classici come Nightrain, Patience e Paradise City, con cui i GNR concludono il loro concerto, coadiuvati dai 60-65 mila presenti, che hanno contribuito anche a colmare le pecche vocali del buon Axl. Tre ore e mezzo di concerto con alti e bassi, non era forse il caso di farne due di ore ma di livello quantomeno costante?
Il terzo giorno vede il metal protagonista ed il piatto forte era atteso per la serata con gli Iron Maiden. L’affluenza della giornata è inferiore rispetto alle due precedenti, ma il popolo metal non ha saputo comunque rimaner indifferente a quanto offerto da questo sabato. L’apertura spetta agli Shinedown, seguiti da Jonathan Davis, cantante dei Korn, al momento concentrato sul suo progetto solista, a sua volta seguito dagli Helloween, nome storico del power-metal, alle prese con un tour dove vede protagonisti tutti gli ex membri, tra cui anche gli ex vocalist Kay Hansen e Michael Kiske. La performance del gruppo tedesco resta ineccepibile, come lo sono i loro cavalli di battaglia Dr.Stein, Ride The Sky e I Want Out, dove i presenti non si sono certo risparmiati nell’accompagnare e nel regalare il giusto tributo ad un gruppo imprescindibile. Giunge quindi l’ora degli Iron Maiden, che realizzano quella che sarà la performance più bella dell’intero evento; Bruce Dickinson, storica voce della band, come tutti i suoi cinque compagni di viaggio, è apparso in forma strepitosa, il che non è male dato che parliamo di una persona che tre anni fa ha avuto a che fare con un tumore alla lingua. La setlist proposta è una sorta di “best of” della loro carriera, con qualche piccola sorpresa data la presenza di The Clansman, Revelations o Aces High, brani che non vengono spesso proposti dalla band britannica. Lo show è stato un susseguirsi di cambi di scenografia e in questo il gruppo è maestro da sempre: protagonista è sempre la mascotte Eddie. The Trooper, The Number Of The Beast, Hallowed Be Thy Name sono solo alcune delle perle che i Maiden hanno regalato ai loro fan, fino a Run To The Hills, titolo di coda della serata. Gli Iron Maiden, dall’alto delle circa quaranta primavere alle spalle, raramente hanno fallito in ambito “live” e anche per questa occasione hanno dimostrato di essere tra i più affidabili sul palco. Non servono altre parole per aggiungere ulteriori concetti riguardo questa performance; come loro ogni volta sembrano rinnovarsi, anche gli aggettivi a loro rivolti necessitano di un aggiornamento.
Si giunge così alla quarta e ultima giornata del Firenze Rocks 2018, giornata sempre dedicata al metal con Ozzy Osbourne come protagonista finale. Prima di The Madman non sono mancati altri artisti di livello, anzi. Dopo l’apertura dei Tremonti, progetto solista di Mark Tremonti, chitarrista degli Alter Bridge, a salire sul palco sono arrivati i Judas Priest, storico nome della scena heavy-metal britannica; il gruppo di Rob Halford, che da poco ha pubblicato il disco Firepower, si è reso protagonista di una performance di livello, conclusasi con Painkiller, che ha scaldato ancor di più i presenti nell’area concerti, già di per sé sofferenti per l’ondata di calore che ha investito Firenze nella giornata di domenica. Il loro concerto però ha avuto una durata ridotta, tant’è che da subito si è notata l’assenza nella scaletta delle storiche Living After Midnight e Breaking The Law; questo taglio di scaletta è avvenuta a causa di problemi relativi alla gestione del tour, come comunicato dalla stessa band, che si è scusata attraverso la loro pagina Instagram. A seguire è toccato agli Avenged Sevenfold, band notoriamente più giovane, fresca e ed in costante crescita da diversi anni. La loro è una missione difficile, ovvero quella di suonare tra due divinità del metal. E ne sono usciti alla grande, regalando ai fan un’esibizione molto soddisfacente, riuscendo a soddisfare vecchi e nuovi fan eseguendo brani da tutta la loro discografia, partendo con The Stage, tratta dall’ultimo ed omonimo disco, e concludendo con Unholy Confessions. Arriva quindi il momento di Ozzy; anticipato dai fotogrammi sui maxischermi che mostrano un po’ tutta la carriera di The Oz, lo show è partito con Bark At The Moon, e sin dalle prime note si è notato un Ozzy in ottima forma nonostante le quasi settanta primavere ed una vita nella quale non si è certo fatto mancar nulla. Il pubblico lo segue, è totalmente ipnotizzato da quello sguardo satanico che lo ha portato nel gota degli immortali del metal. La scaletta diventa una sorta di ping pong tra brani del suo percorso solista e brani dei Black Sabbath: No More Tears, War Pigs, Shot In The Dark. Il tutto accompagnato dai suoi ottimi musicisti, in particolare dal chitarrista Zakk Wylde, al momento l’unico in questo genere capace di catturare l’attenzione attraverso i suoi virtuosismi con lo strumento. L’ora e mezza di durata è stata intensa, energica, frizzante, a tratti anche divertente, in particolare quando Ozzy assumeva quel ruolo da leader dei 40mila che affollavano l’arena toscana. Il concerto ha come punto finale la consueta Paranoid e la sensazione che resta ai presenti è quella di aver partecipato a qualcosa di irripetibile.
Si conclude così la seconda edizione del Firenze Rocks, quattro giorni in cui resta quel sentore di aver percorso un viaggio tra il rock e il metal più datato, la cui preziosa eredità è stata raccolta al meglio dalle generazioni successive, come si è evinto dalle varie esibizioni. Nota di merito va anche all’organizzazione: l’evento è stato curato in tutti gli aspetti e i riscontri sembrano, per una volta, quasi tutti positivi.