03/06/2014

Ian Anderson

Nuovo album solista per lo storico frontman dei Jethro Tull. Rock, folk, metal, flauto e persino Gerald Bostock, il bimbo prodigio di “Thick As A Brick”
Gerald Bostock è tornato. E anche questa volta è qui ovviamente per volontà di Ian Anderson.
È riapparso infatti l’enfant prodige che “aveva scritto” la poesia trasferita sotto forma di testo su Thick As A Brick nel 1972 e di cui lo storico frontman dei Jethro Tull si è occupato di nuovo nel 2012, ipotizzando per lui eventuali nuovi scenari di vita in Thick As A Brick 2. Dopo anni trascorsi in politica, Bostock quindi è di nuovo presente nella vita artistica di Ian Anderson come tour manager, nonché come autore di testi. È stato “lui” infatti a mettere in ordine gli scritti dello storico dilettante Ernest T. Parritt (1873-1928) per completare Homo Erraticus.
 
Nasce da tali presupposti il nuovo album di Ian Anderson. Sin dalle prime note l’impressione è quella di ascoltare i “nuovi vecchi” (e quindi sempre riconoscibili) Jethro Tull, seppur in copertina vi sia soltanto il nome del frontman della band. Il marchio di fabbrica c’è sempre e anche l’ispirazione non manca. Rock, folk e metal. Conoscenza, esperienza e dedizione.
 
Il disco è suddiviso in tre parti, Chronicles, Prophecies e Revelations. Si spazia dal neolitico al Principe Alberto (marito della Regina Vittoria), dai Celti ai Normanni, dalle guerre mondiali ai social network e in particolare si ripercorre la storia britannica, offrendo nuovi e ironici spunti di riflessione.
 
Le atmosfere si fanno subito varie, ben amalgamate e interessanti con il dirompente inizio di Doggerland, rispetto alla breve e riflessiva Heavy Metals (ripresa dopo in In For A Pound). Da segnalare anche la trionfalmente sofferta Puer Ferox Adventus e il fascino frizzantino di The Pax Britannica. C’è spazio poi per chitarre elettriche possenti e fondamentali per le incalzanti The Turnpike Inn o The Engineer a metà cd o per le progressioni di The Browning Of The Green collegate a quelle di inizio disco.
 
Ma in fin dei conti in Homo Erraticus è sempre il flauto di Ian Anderson a condurre i giochi e ad innalzare i dialoghi e i contrasti con la stessa voce del frontman dei Jethro Tull. Il flauto infatti riesce, come di consueto, a tradurre tutto in un linguaggio originale, “danzando” con indisturbata convinzione o “riflettendo” con consumato mestiere. Il flauto è il fulcro (nonostante siano trascorsi più di 40 anni dalla prima volta in cui lo fu). Senza nulla togliere a Gerald Bostock (o chi per lui). Anzi…
 
Intervista a Ian Anderson

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