31/01/2013

Il grande valore di Zero

Genio delle sonorità legate alla Factory di Manchester, nel 2013 Martin Hannett avrebbe compiuto 65 anni

Conosciuto ai più come produttore e musicista, Hannett viene considerato un genio da chi ha seguito le vicende underground britanniche: un innovatore, uno che ha contribuito all’evoluzione della storia del rock con effetti più determinanti rispetto a tanti musicisti celebrati a sproposito. 
Poi soprannominato Zero (per qualche tempo diventerà il suo cognome artistico), Martin nasce nel quartiere cattolico di Manchester il 31 di maggio del 1948. A scuola è molto bravo e la sua prossima laurea in chimica gli varrebbe un posto sicuro in un prestigioso laboratorio (e non era facile a quei tempi e da quelle parti trovare un lavoro decente). Come tanti della sua età, anche lui però si appassiona di musica e comincia a suonare il basso per poter far parte di una band. La passione prende definitivamente il sopravvento sulla carriera tra le provette quando, con l’amico Tosh Ryan, fonda la cooperativa Music Force, un’agenzia di booking, editing e supporto tecnico ai gruppi locali (fra le prime band ad avvalersene ci furono i Warsaw). Hannett allestisce con dedizione uno studio di registrazione in proprio e comincia a studiare a fondo tutte le possibilità di espansione della produzione analogica con i nuovissimi dispostivi elettronici tipo AMS Delay.

A metà degli anni ’70, dopo alcune esperienze come roadie, Hannett si dedica prevalentemente alla produzione, sperimentando nuove vie di suono che cominciano a caratterizzarne l’approccio. Il suo nome circola sempre più frequentemente, mentre Manchester e le sue periferie (Macclesfield e Salford) brulicano di gruppi punk alla ricerca di una sala d’incisione e di un contratto. Il più importante dei quali è quello di Peter McNeish (aka Pete Shelley) e Howard Devoto – i Buzzcocks, che si sono già esibiti in città come gruppo spalla dei Sex Pistols, unendosi poi al loro Anarchy Tour. Devoto, amico di Zero, lo coinvolge nelle registrazioni di Spiral Scratch EP, pietra miliare della filosofia “do it yourself” a bassissimo costo e di tutto il movimento punk britannico (e anche notevole successo al botteghino, con le sue 16mila copie vendute in dieci giorni). L’uscita repentina di Devoto dai Buzzcocks segna la fine della collaborazione tra Zero e la band, ma dietro l’angolo per Hannett c’è già l’occasione della vita, occorre solo aspettare qualche tempo.

Tony Wilson, neo fondatore della Factory, è infatti un grande estimatore di Zero e lo vorrebbe come produttore per la band su cui sta puntando tutto, i Joy Division, evoluzione degli scarni Warsaw, capitanati da un cantante ombroso ed epilettico che scrive testi decisamente poco punk. Il suono della band è grezzo e derivativo, ma Wilson e Hannett intravedono un enorme potenziale. «C’era un sacco di spazio nel loro suono» disse Zero in un’intervista successiva «e non si trattava semplicemente di riempirlo, ma di renderlo più suggestivo e indefinito. Perché loro stessi erano indefiniti: non più una punk band, ma nemmeno qualcosa d’altro. Un vero dono per un produttore». Passano due anni pieni di impegni prima che Hannett possa dedicarsi al gruppo di Ian Curtis. Due anni di lavoro febbrile e sperimentale con band e artisti misconosciuti come Jilted John, Slaughter And The Dogs, Pauline Murray e John Cooper Clarke.

Finalmente, nell’ottobre del 1978, tutto è pronto per le registrazioni con i Joy Division, il cui culto locale è nel frattempo cresciuto a dismisura. Hannett entra in studio con i ragazzi per fissare su nastro il loro contributo al The Factory Sampler, demo album di band mancuniane amate da Wilson (Durutti Column e A Certain Ratio, fra gli altri) e comincia a ragionare sul suono che li dovrà caratterizzare. Lo affascina il modo di suonare il basso di Peter Hook e sarà proprio il Rickenbacker di questi a subire la prima eccentrica rivoluzione hannettiana, nell’identificazione di un callo alto e metallico che diverrà l’imprinting di Hookie da lì in poi. Poi toccherà alla batteria di Stephen Morris che, sotto la cura di Zero, verrà resa secca, compressa, tetra e piena di effetti eco (soundscape si direbbe nella lingua madre).

Le successive session per l’album di debutto, Unknown Pleasures, al Cargo di Rochdale e al mitico Strawberry di Stockport sono sorprendenti per lo stesso Hannett, come rivela a NME. «Stavo scoprendo assieme a loro tutte le possibilità del digitale, sia nella fase di cattura dei suoni, sia nel missaggio. La band stessa era alquanto nervosa per via del mio eccesso di sperimentazione». Il suono che Zero (nel frattempo divenuto produttore ufficiale della Factory) conferisce ai Joy Division è il risultato di intuizioni geniali che porteranno la critica a esaltarne il lavoro, identificando Hannett come una sorta di Phil Spector del post punk. Il wall of sound di Martin è solo apparente, e deriva dall’attento utilizzo di riverberi e ritardi e da una meticolosa disposizione degli spazi e dei microfoni, oltre che a un caotico e rumoroso utilizzo dei registri alti. Lo studio sembra vuoto alla vista; gli strumenti sono dislocati negli angoli e c’è sempre un’ampia stanza apposita dove confluiscono i suoni da effettare con l’eco. Zero traduce il tutto in schizzi a matita che consegna a tecnici e musicisti.
Guardatelo in questo raro video in cui cerca di spiegare a Tony Wilson il suo concetto di Sound Box).

Anche la voce di Curtis viene curata nei dettagli, sezionata a seconda dei casi. Hannett introduce lentamente i sintetizzatori, capovolgendo in una manciata di brani l’approccio stesso dei ragazzi al suono, fino alle mitiche sessioni di Closer della primavera del 1980 ai Brittania Row di Londra. L’affiatamento tra produttore, band e label manager è notevole. «Un giorno eravamo quattro punkettari di Macclesfield e Salford e il mese dopo avevamo un album di debutto fantastico e innovativo» ha riconosciuto recentemente Stephen Morris. Ma la storia dei Joy Division, come noto anche a chi non li ha mai ascoltati ma li posta su Facebook perché fa figo, a un certo punto si interrompe per il suicidio di Ian.
Dopo un periodo di sbandamento durato circa un anno, Hookie, Sumner e Morris decidono di proseguire con il nome di New Order, chiamando ancora Hannett a produrre il disco d’esordio. Movement sarà, di fatto, l’unica collaborazione dei superstiti con Zero: dal secondo album i New Order decidono infatti di autoprodursi, dopo aspri dissidi per via delle scelte radicali di Hannett sulla voce di Sumner. Finisce male, di conseguenza, anche il suo rapporto con la Factory e con Tony Wilson.

L’agenda di Zero è però ugualmente fittissima in quel periodo e per tutta la decade: in lista d’attesa ci sono i Magazine (il nuovo gruppo di Howard Devoto), i Durutti Column di Vini Reilly, gli A Certain Ratio e, fuori da Manchester, perfino gli U2 (che dopo un breve contatto, gli preferiscono il più canonico Steve Lillywhite per il debutto con Boy). Sono molte le band che resteranno segnate dalla seconda vita artistica di Zero: i primi Psychedelic Furs, gli Happy Mondays (che nel 1988 lo ricongiungono alla Factory), Nico And The Invisible Girls e gli Stone Roses degli albori, in una girandola di intrecci che vedeva Hannett e molti artisti collaborare l’uno con l’altro.

Al di fuori dal lavoro, la vita di Martin Hannett nel frattempo ha però preso una brutta piega: il fisico già gracile, è sempre più debilitato da una tremenda dipendenza dall’alcol e dall’eroina. Quando Zero riesce a liberarsi da quest’ultima, a seguito di una traumatica terapia disintossicante, le sue condizioni addirittura peggiorano. Martin Hannett muore col cuore sfasciato a Manchester nell’aprile del 1991 a 41 anni, completamente sfatto dall’alcol. Negli ultimi mesi aveva smesso di lavorare, anche se le richieste certo non gli mancavano (tra gli altri, restano misteriosi i nastri in cui Hannett e Beth Gibbons hanno lavorato ad alcuni brani per un disco solista di Beth pre Portishead mai uscito).

L’eredità artistica di Zero è notevole e disseminata in una miriade di dischi, molti dei quali purtroppo difficili da reperire. Nel tempo si è anche scoperto che parecchie delle partiture musicali che egli stesso componeva, venivano utilizzate dagli artisti che produceva, ai quali Hannett si dedicava con impegno totale. Qualche tempo prima di lasciarci nel 2007, Tony Wilson dichiarò che Hannett avrebbe dovuto essere considerato uno degli eroi della sua città, per l’enorme contributo artistico prodotto, soprattutto nel periodo 1978-1981, gli anni dei Joy Division. Per celebrare i quindici anni dalla morte e per godere dell’insieme delle sue intuizioni sonore, la Big Beat ha pubblicato in Inghilterra nell’aprile del 2006 (ancora reperibile su Internet), un disco che personalmente ritengo imperdibile e che utilizzo ancora spesso nelle serate in cui mi travesto da DjPj (Zero, A Martin Hannett Story 1977-1991). L’album contiene 21 tracce da lui prodotte per i gruppi più diversi. Ascoltato tutto d’un fiato, il disco fa capire quanto abbia dato Hannett alla musica che oggi amiamo ancora, quanti abbiano cercato di imitare il suo inconfondibile stile sonoro e quanto sia ancora oggi incolmabile il vuoto lasciato dalla sua morte.

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