(Foto: Lasse Hoile)
Sono lontani i fasti “prog” che hanno caratterizzato sia la sua produzione di successo con i Porcupine Tree, sia alcuni frangenti della sua prolifica e cangiante carriera solista, basti pensare a dischi come The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) e Hand. Cannot. Erase. Se già il precedente album To The Bone lasciava intuire un ammorbidimento delle sonorità votato ad un’esperienza di ascolto più accessibile, questo The Future Bites (TFB.com/Caroline International) completa la transizione e si presenta come l’album più “facile” del repertorio di Steven Wilson. Le canzoni si fanno meno complesse e stratificate, a favore di un approccio più diretto, maggiormente incentrato sulla costruzione di melodie e di arrangiamenti ricchi e immersivi, che traggono a piene mani dal pop dei decenni passati tanto caro a Wilson, con particolari accenti su synth-pop e new wave. Questa semplificazione però non implica l’abbandono di uno dei leitmotiv della carriera del polistrumentista inglese, ovvero il concept album. Se nel sopracitato To The Bone Wilson indugiava sul ruolo dei social network, in The Future Bites la narrativa si espande verso il ruolo di Internet nella società, di un consumismo sempre più spinto e di un egocentrismo sempre più diffuso. All’interno di queste tematiche Wilson porta avanti parallelamente un eterno dibattito interiore: il costante braccio di ferro tra una musica mercificata e l’intento artistico-espressivo, che in quest’album più che mai emerge con dirompenza, considerata la maggiore accessibilità del disco.
Sono lontani i fasti “prog” che hanno caratterizzato sia la sua produzione di successo con i Porcupine Tree, sia alcuni frangenti della sua prolifica e cangiante carriera solista, basti pensare a dischi come The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) e Hand. Cannot. Erase. Se già il precedente album To The Bone lasciava intuire un ammorbidimento delle sonorità votato ad un’esperienza di ascolto più accessibile, questo The Future Bites (TFB.com/Caroline International) completa la transizione e si presenta come l’album più “facile” del repertorio di Steven Wilson. Le canzoni si fanno meno complesse e stratificate, a favore di un approccio più diretto, maggiormente incentrato sulla costruzione di melodie e di arrangiamenti ricchi e immersivi, che traggono a piene mani dal pop dei decenni passati tanto caro a Wilson, con particolari accenti su synth-pop e new wave. Questa semplificazione però non implica l’abbandono di uno dei leitmotiv della carriera del polistrumentista inglese, ovvero il concept album. Se nel sopracitato To The Bone Wilson indugiava sul ruolo dei social network, in The Future Bites la narrativa si espande verso il ruolo di Internet nella società, di un consumismo sempre più spinto e di un egocentrismo sempre più diffuso. All’interno di queste tematiche Wilson porta avanti parallelamente un eterno dibattito interiore: il costante braccio di ferro tra una musica mercificata e l’intento artistico-espressivo, che in quest’album più che mai emerge con dirompenza, considerata la maggiore accessibilità del disco.
L’album si apre con la combo Unself/Self: il primo è un breve prologo dalle atmosfere floydiane, il secondo invece mostra Wilson immediatamente a suo agio con questa forma di pop sofisticato dagli arrangiamenti brillanti e profondi. Il compositore britannico unisce in modo efficace strumentazione elettrica ed elettronica. Questa accoppiata si palesa con forza nella successiva Ghost King, brano cupo dalle atmosfere trip hop lacerate da un ritornello luminoso, impreziosito da inaspettati ed eterei cori in falsetto. 12 Things I Forgot riporta in auge uno splendido pop-rock dai toni anni ’90, coronato da un ritornello molto efficace e la solita produzione sopraffina: un perfetto singolo trainante per l’album. Emergono in modo più prepotente le chitarre in brani come Eminent Sleaze e Follower, che spaziano tra riff dagli echi blues, accordi secchi e pungenti in stile new wave e assoli noise rock. Tra queste tracce si posizionano la morbida ballata Man Of The People e Personal Shopper, che incarna in pieno i temi e le sonorità dell’album grazie ad un testo che critica il consumismo senza freni della società, ricamato su una base martellante alla Depeche Mode che sfuma in un ritornello memorabile e dissacrante e culmina con un cameo di Elton John. Il disco si conclude infine sulla bellissima e atmosferica ballata Count of Unease.
Il progressive rock “alla Steven Wilson” in questo album è pressoché assente, ma non per questo sminuisce quello che è un ottimo disco. Con The Future Bites Steven Wilson dimostra ancora una volta la sua natura di artista camaleontico, volenteroso di uscire da schemi ed etichette.
Anche in una formula musicale apparentemente facile e fruibile, Wilson inserisce narrative esistenziali e temi di un certo peso. La produzione si conferma di ottimo livello, così come il songwriting e gli arrangiamenti, dai quali traspare tutto il bagaglio musicale maturato dall’ex Porcupine Tree.
Esperimento riuscito.