La ricostruzione sistematica di Battiato
L’ascolto consapevole del grande artista secondo Vincenzo Greco
Si è scritto tanto su Franco Battiato. La letteratura sull’indimenticabile artista, unita alla generosità delle sue interviste, rende facile la vita di uno studioso. Esiste dunque un materiale bibliografico abbondante che però difficilmente sconfina ed esce dal dato biografico o dall’aneddotica, oppure dall’analisi spirituale e mistica. Sono poche le eccezioni – pensiamo a Café Table Musik di Carlo Boccadoro – e Battiato. Una ricostruzione sistematica (Arcana) è una di queste. Ne parliamo con l’autore, Vincenzo Greco.
Ricostruire con sistematicità una vicenda artistica significa trovare per l’appunto un sistema. Vita e opera come una sorta di organismo conchiuso: parte da qui il tuo percorso di studio su Battiato?
Si, parte esattamente da qui. Per pochi artisti si può notare questa corrispondenza tra vita e opere e, soprattutto, una completezza e coerenza interna al messaggio artistico. Il primo album di Battiato, Fetus, parte con il pianto di un bambino e raffigura in copertina un feto. L’ultimo, Apriti Sesamo, è il precipitato finale di tutta una riflessione sulla morte come passaggio ad altra dimensione, compresa quella della rinascita. Già solo questo ci dà la cifra di un discorso che si apre e si chiude. In mezzo a tali due poli c’è tutto un riflettere sulla vita e sul senso dell’esistere, su come cogliamo o sprechiamo l’occasione di vivere che, ci ricorda Battiato, “è un dono che ci ha dato il Cielo”.
Per quanto riguarda la sua vita, credo che Battiato abbia accuratamente limitato passaggi a vuoto e dispersioni: ha cercato, insomma, di non sprecare l’occasione che gli è stata data, portando a compimento un discorso anche di tipo didattico e suggerendo – anche all’interno di canzoni – letture, autori da conoscere, pratiche di meditazione, filosofie e discipline di studio. Un tramite, insomma, come ho cercato di dimostrare nell’ultimo capitolo del libro. Cosa di cui era consapevole, soprattutto negli ultimi anni di carriera.
Un primo dato rilevante è l’evoluzione del Battiato musicista. Non si mai ripetuto, come tu stesso scrivi. Se volessimo individuare un disco o anche un momento della sua storia, quando pensi che si sia espresso in modo compiuto? Dove troviamo il Battiato “definitivo”, in poche parole?
Io credo che il Battiato definitivo lo possiamo trovare mettendo in collegamento tra loro le sue opere. È questo il senso del mio libro, che appunto utilizza i criteri dell’interpretazione sistematica, il cui senso è proprio collegare tra loro le cose. Ad esempio, La voce del padrone riassume tutto quello che Battiato ha studiato riguardo alla musica seriale nel periodo degli anni ’70, fatto sfociare in modo del tutto originale nel pop: anche se non sembra, Summer on a solitary beach è figlia di Propriedad prohibida. Come le risonanze che ascoltiamo in certe parti di Telesio o della Messa Arcaica le troviamo nello stranissimo L’Egitto prima delle sabbie.
Ci sono, comunque, opere più importanti di altre proprio perché o riassumono quanto fatto in precedenza, portandolo a compimento, o tracciano un nuovo percorso. E quindi momenti del genere li troverei in La voce del padrone, per quanto riguarda la tendenza pop. In Fisiognomica e nell’accoppiata Come un cammello in una grondaia/Caffè de la Paix per quanto riguarda la tendenza spirituale. In Gommalacca, debitamente unito a X stratagemmi, per quanto riguarda la tendenza rock-sperimentale. E nella Messa Arcaica per la parte classica.
Nella storica intervista con Franco Pulcini, Battiato non si considera musicista o compositore ma sottolinea il suo essere un uomo di suono. Qual è stato il suono tanto cercato da Franco?
Cerco di spiegarlo nel secondo capitolo, sulla musica ferma. Battiato era interessato molto alla purezza del suono (da intendere con riferimento anche ai suoni elettronici), alle risonanze, a tutto quello che un suono porta con sé.
Il Kyrie della Messa Arcaica è emblematico di quello che ho chiamato musica ferma: un solo accordo suonato da un harmonium con suoni lunghi nell’attesa che si formino le risonanze. Questo nascere dal nulla e successivo dissolversi dei suoni rappresenta anche la nostra esistenza terrena, fatta di impermanenza, il nostro essere solo di passaggio. Ma, e qui sta il punto decisivo, i suoni prima di dissolversi creano, proprio grazie alle risonanze, altri suoni. Che è quello che accade al nostro spirito, che non muore con il corpo ma trasmigra da esso verso altri corpi o comunque verso altre dimensioni. A me accade questo durante i primi secondi della Messa Arcaica: un senso immediato di calma, un richiamo di zone interiori e persino di punti del corpo che vengono toccati da quei suoni, più o meno verso la zona del torace e del diaframma. Corpo e spirito diventano una cosa sola nella fruizione di quel suono.
È in qualche modo conclusivo persino pensare che la Messa Arcaica fu l’ultimo concerto di Battiato, a Catania. Io c’ero e, nel dramma di un uomo stanco che non ce la faceva più a reggere concerti dal vivo, è comunque passato questo messaggio, per chi era in grado di percepirlo (non tutti, ricordo un pubblico molto disattento e poco abituato a discorsi di questo tipo).
Leggendo il capitolo Frammenti ho pensato a Battiato come un elastico camminatore tra generi alti e bassi – per quello che può ancora contare questa definizione. Tra i vari collage di suoni e parole che ha realizzato, dove pensi che si trovi il senso profondo di questo suo viaggio trasversale?
Il collage perfetto credo si trovi ne La Voce del padrone. A livello musicale in modo molto più fruibile dei dischi passati, soprattutto quelli di metà anni ’70, interessantissimi ma non per tutti. E soprattutto a livello testuale, in cui è riuscito a farci ballare su un semplice giro di Do citando Gurdjieff (Centro di gravità permanente) o mettendo insieme ricordi d’infanzia e frasi di canzoni di successo (Cuccuruccuccù). E poi in alcuni momenti della sua opera lirica Genesi, che spero possa essere del tutto riscoperta: si sente che è un’opera scritta da un musicista che conosce il pop ma che sa andare oltre i limiti di questo.
Anni fa Mario Bonanno scrisse un bel libro sui cantautori italiani, Con rabbia e con amore. Amore e rabbia sono stati i principali poli tematici che hanno ispirato la nostra canzone d’autore, ma per Battiato? Come ha interpretato la rabbia generazionale? In che modo ha cantato l’amore?
Battiato riguardo questi sentimenti è stato un unicum. Ha sparigliato del tutto le carte in tavola.
Da buon intenditore di tematiche buddiste o comunque orientali, Battiato considera i sentimenti come possibili catene di una prigionia mentale che noi stessi ci costruiamo: non a caso lui propone a se stesso, in E ti vengo a cercare, di emanciparsi dall’incubo delle passioni. Rabbia e amore possono trasformarsi in passioni generatrici di dolore e sofferenza.
Battiato si pone verso questi sentimenti in modo invece da trarre da loro, attraverso un processo di sublimazione, una indicazione verso quello che è più alto, solido e, direi, vero. E quindi, la rabbia fine a se stessa la vede come qualcosa da cui non fuoriesce nulla se non equivoci, “falsi miti di progresso”, come dice in Up patriots to arms, o “stupide galline che si azzuffano per niente”, come dice in Bandiera bianca.
Tutt’altra cosa è l’indignazione, in cui la rabbia viene sublimata, non certo per essere negata ma per essere portata un livello di più alta riflessione. L’indignazione, di cui Povera patria è un caposaldo, nasce dal confronto tra quello a cui sarebbe destinata la natura umana e quello che invece si riduce a fare. Le dinamiche del potere sono un esempio lampante quanto mortificante di come l’uomo possa deviare dal cammino cui è chiamato per mettersi su una strada di sopraffazione, violenza e morte.
Mentre i cantautori degli anni ’70 alzavano il pugno e urlavano la loro rabbia, Battiato osservava tale sfogo con un certo distacco, quasi prendendolo in giro. Lui non ha alzato il pugno, come in una qualsiasi manifestazione politica, ma ha condotto il suo e il nostro sguardo verso il Cielo. Questo ha generato l’immenso equivoco di un Battiato reazionario, se non addirittura di destra. Nulla di più sbagliato. Posso assicurare che il suo cuore non batteva certo lì. Il suo cuore batteva per altre sfere, un po’ più in alto. Ma se proprio la dobbiamo buttare in politica, non certo dalle parti di chi, a Catania, gli ha persino negato una laurea ad honorem (parlo di un rappresentante degli studenti che poi ha fatto la sua bella carriera politica).
Quanto all’amore, Battiato ha sublimato anche quello. La cura passa per una canzone d’amore, ma non è solo quella. Anzi, non è proprio una canzone d’amore, dell’amore di coppia intendo. È una canzone sui limiti umani, che il sentimento d’amore ci illude di farci superare. Chi conosce le leggi del mondo non è l’uomo, anche se quando l’uomo è innamorato si sente così vivo da sentirsi quasi onnipotente. Le conosce l’Assoluto. E dunque La cura è una canzone dove si sottolineano i limiti umani e terrestri, facendoci capire che è l’Assoluto che può conoscerli e quindi superarli, nell’atto del dono. Chi parla in quella canzone è l’Assoluto (non lo chiamo Dio per evitare equivoci, ma ci siamo intesi credo). Non è collocata in un rapporto di coppia, ma in un rapporto divino. Solo in questo senso, possiamo definirla come canzone d’amore.
Battiato maestro, mistico, saggio, spirituale. Tutto vero, ma è stato anche un intelligente e gioioso uomo pop, da milioni di copie. La canzonetta può rapidamente travolgere il suo autore: come ha fatto Franco a restare indenne?
Franco è rimasto indenne da tutto questo proprio perché, in modo molto intelligente, ha saputo individuare l’esatto confine tra la serietà pedante e saccente e il non prendersi troppo sul serio. Ha saputo portare argomenti impegnativi, a rischio di pesantezza, in un contesto leggero. È stato lieve. Senza mai scadere né nella superficialità, da un lato, né nella pesantezza, dall’altro lato. Ha trovato un equilibrio. Frutto, io credo, anche della gioia che la frequentazione della meditazione e delle pratiche orientali gli ha portato. È stato un uomo e un artista gioioso, senza tuttavia trasformarsi in uno stupido festaiolo e riuscendo sempre a rifuggire le mode.
Altra cosa che lo ha salvato dai rischi di cui sopra, è stata la curiosità. Non si è limitato a un genere musicale, è persino riuscito ad esprimersi al di là della musica, con altre forme d’arte, e ha sempre sperimentato e innovato. Quanti, al posto suo, dopo La voce del padrone, non avrebbero replicato la ricetta del successo con un disco fotocopia? Lui, invece, se n’è uscito con un disco completamente diverso, L’arca di Noè. E infatti scherzava quando raccontava che a volte per strada lo fermavano per dirgli: «non mi è piaciuto!»
La prefazione di Stefano Pio è significativa, così come il rapporto tra Giusto e Franco. Cosa ha dato Giusto Pio al suo ex allievo di violino?
Sembrerà strano, ma Giusto Pio ha ringiovanito Battiato. Lo ha aiutato a non incartarsi nella strada senza sbocco della musica contemporanea. Lo ha aiutato a masticare il pop senza rinunciare a tutto quello che finora aveva fatto. Gli ha aperto le strade della così detta orecchiabilità e gli ha fornito strumenti pronti all’uso per quanto riguarda orchestrazioni e sistemazione delle partiture.
È ingiustamente dimenticato in quasi tutti gli omaggi che si fanno, e suo figlio Stefano fa molto bene a rivendicare l’importanza del padre. Che io stesso ribadisco, nel capitolo Sodalizi, comparando le due grandi collaborazioni di Battiato, quella con Giusto Pio e quella con Manlio Sgalambro. Diverse, ma con alcuni punti di contatto.
Non sei solo uno scrittore ma anche un artista e performer. Tra le varie cose che stai preparando è degno di nota uno spettacolo teatrale che vedrà la luce in autunno, ispirato a Una ricostruzione sistematica. Di che si tratta?
È uno spettacolo teatrale e musicale, intitolato Tocco l’infinito con le mani, che prende le mosse proprio dal libro, soprattutto dalle tematiche individuate in esso. Non so se si possa definire una vera e propria trasposizione in forma teatrale del libro, anche se in qualche modo lo è perché condivide l’impostazione e lo spirito di fondo, e anticipa qualche tema del mio prossimo libro.
In questo spettacolo la musica di Battiato (e Giusto Pio, per certi brani) viene utilizzata come un canale di conduzione. Un po’ come ha fatto lui, che ha utilizzato la musica per fare riflettere le persone su certi argomenti, soprattutto quelli di tipo filosofico e spirituale, io stesso mi valgo di Battiato per impostare un percorso sulla deriva che la nostra natura sta seguendo. È una ferrata critica del tempo moderno, tutto incentrato sulla materialità e sulla negazione del silenzio e del vuoto. Viviamo nell’ammasso, nell’accumulo e nel rumore. E ci dimentichiamo di molti segnali che invece la natura ci fornisce.
La domanda di fondo è: con l’ultimo respiro finisce tutto? La risposta prende le mosse dalla constatazione che dentro abbiamo più tracce di infinito che di finito. Siamo più abituati a coniugare grammatiche infinite che finite. Ad esempio, per quanto sia difficile immaginare un universo infinito, è molto più difficile immaginarlo finito perché, davanti un universo finito, ci domanderemmo tutti cosa c’è oltre la porta che lo delimita.
Questo vuol dire che dentro abbiamo scintille di infinità, che tuttavia ci adoperiamo, anche inconsapevolmente, a spegnere per andare dietro a cose futili, come l’accumulo del denaro e la ricerca del potere.
Lo spettacolo vedrà l’alternanza di testi recitati, ovviamente da attori, e di canzoni, qualcuna anche mia, tutte da me riarrangiate e suonate dal vivo. E vedrà la luce verso fine settembre/inizio ottobre al Teatrobasilica di Roma. Sui miei canali social si troveranno a breve indicazioni più precise.
A proposito di cose legate tra loro, nel frattempo ho anche pubblicato un disco di miei pezzi originali, intitolato Siamo esseri emozionali, che si chiude però con un Gommalacca medley che sicuramente farà parte di questo spettacolo.