Bacharach & David, Goffin & King, Pomus & Shuman, Lennon & McCartney, Jagger & Richards, Strummer & Jones, Morrissey & Marr. Sono solo alcuni dei binomi che evocano un’indubbia magia nella musica popolare del secolo scorso. Essa va oltre alla qualità delle canzoni di cui sono stati felicemente responsabili e che hanno lasciato un segno indelebile nella giovinezza e nella vita di milioni di persone. Riguarda anche l’alchimia che si crea nella fusione o dalla collisione tra la creatività di due anime che, incontrandosi, sono in grado di toccare le corde più sensibili dell’animo umano, e la capacità di trasporla in una formula efficace riuscendo a mantenere il necessario equilibrio perché si possano raccogliere i frutti di tale prodigiosa casualità.
Ideali capostipiti di questa lista sono Leiber & Stoller. È impressionante la lista degli artisti che hanno inciso le loro canzoni (Elvis Presley, Edith Piaf, Frank Sinatra, T-Bone Walker, Peggy Lee, Carmen McRae, David Bowie, Neville Brothers e Little Feat) senza contare coloro che si sono cimentati con le celebri Hound Dog e Jailhouse Rock. Ambedue di origine ebrea e provenienti dalla East Coast, Jerry Leiber e Mike Stoller si conobbero a Los Angeles, dove le rispettive famiglie si erano trasferite nell’immediato dopoguerra. Leiber, acuto e brillante, con un amore viscerale per il blues, era un paroliere per l’epoca inconsueto, capace di travasare e sintetizzare nei testi il lessico quotidiano e gli idiomi delle varie comunità americane. È mancato nell’agosto del 2011, lasciando solo il suo partner artistico dopo un sodalizio durato sessant’anni. Stoller, pianista dal background classico che però adorava il jazz e il boogie, del duo era invece il compositore capace non solo di inventare linee melodiche originali, ma anche di avere la visione del sound e dell’arrangiamento necessario per dare il giusto colore e l’ambientazione sonora ai brani che scrivevano.
Come nacque la collaborazione con Jerry Leiber?
«Ricevetti una chiamata. “Ciao il mio nome è Jerome Leiber. Sei Mike Stoller?”. “Sì”. “Hai suonato a un concerto a East Los Angeles la settimana scorsa?”. “Sì”. “Sai scrivere la musica?”. “Sì”. “Sai scrivere le note sul pentagramma?”. “Sì”. Vorresti scrivere canzoni con me?”. “No”. “Perché?”. “Perché non mi piacciono le canzoni”. “E cosa ti piace?”. “Mi piacciono Béla Bartók e Thelonious Monk”. “In ogni caso credo che dovremmo incontrarci e parlarne”. “Beh, se vuoi venire fai pure”. Ero stato un po’ brusco ma sinceramente a me non piacevano le canzoni. Amavo il jazz, il boogie. Quando arrivò, però, presto mi resi conto che ciò che lui scriveva aveva la struttura del blues. E io amavo anche il blues. Inoltre si vedeva che aveva talento. Ciò che scriveva era brillante. Iniziammo così e voglio ricordare quanto fosse stupefacente la sua inventiva. Trovava spunto da ogni cosa per creare nuovi testi che contenevano espressioni tipiche delle varie comunità americane, dandogli anche un tocco teatrale o comico. Era molto dotato».
Il brano che vi portò alla celebrità fu Hound Dog di Elvis Presley che avevate scritto qualche anno prima per Big Mama Thornton. Vi aspettavate un exploit del genere?
«L’incredibile successo di Hound Dog nella versione di Presley fu per me un’assoluta sorpresa. È una storia da raccontare se ancora non la conosci. Nei primi mesi del 1956 ricevetti un assegno di 5000 dollari dalla Capitol per le royalties del brano Black Denim Trousers And Motorcycle Boots che i Cheers avevano portato al successo. Non avevo mai visto una cifra simile e pensai “chissà se mi succederà ancora”. Così, insieme alla mia prima moglie, decisi di partire per un lungo viaggio alla scoperta del Vecchio Continente che durò ben tre mesi. Arrivammo in aereo a Copenaghen per iniziare un bellissimo giro visitando Amsterdam, Bruxelles, Londra, Dublino e Parigi. Immagina la mia emozione quando mi ritrovai all’Olympia di Parigi ad ascoltare la grande Edith Piaf eseguire la stessa canzone che mi aveva fatto ricevere quel cospicuo assegno…»
Black Denim Trousers And Motorcycle Boots?
«Proprio così. In francese L’homme à la moto, e diventò uno dei più grandi successi di Edith Piaf. Vederla su quel palco mentre cantava la nostra canzone fu l’apoteosi di quel viaggio».
Ma Hound Dog?
«Adesso ci arrivo [con un sorriso], è una lunga storia. A Parigi presi un’auto a noleggio e ce ne andammo per un mese in giro per la Francia. Poi, giunti a Nizza, partimmo in treno alla volta dell’Italia: Venezia, Firenze, Roma, Napoli e il suo bellissimo golfo. Per il ritorno il mio agente di viaggio mi disse di aver prenotato un’emozionante traversata in nave a bordo della magnifica Andrea Doria… Ebbene fu davvero emozionante [ride]. Quello fu l’ultimo viaggio dell’Andrea Doria e rischiammo tutti di morire poco prima dell’arrivo negli Stati Uniti. Riuscimmo a calarci su una scialuppa che però era abbandonata alla deriva in quanto era danneggiato il timone. Fummo salvati da un mercantile, la Cape Ann, che ci riportò sani e salvi a New York. Lì mi aspettava Jerry che quando aveva sentito dell’accaduto si era disperato e temeva per la nostra vita. Puoi immaginare la nostra gioia quando ci abbracciammo e fu allora che mi disse: “Mike abbiamo un grande hit!”. “Stai scherzando?”, gli risposi. “Hound Dog!”. E io: “Big Mama Thornton?”. “No, un ragazzo bianco di nome Elvis Presley”. “Elvis chi?!?”. Ecco, può sembrare incredibile, ma fu così che sentì nominare per la prima volta il suo nome».
Cosa pensi della versione di Elvis e del fatto che furono cambiate alcune parti del testo per smussare gli espliciti riferimenti sessuali?
«In realtà Elvis riprese la versione che ne avevano fatto Freddie Bell And The Bellboys, una band di Philadelphia che aveva visto a Las Vegas. La versione di Elvis non mi dispiaceva, il ragazzo aveva un grande talento, ma la canzone appartiene a Big Mama Thornton: la sua versione non ha rivali».
Eravate presenti alla sua registrazione nel 1952, giusto?
«Sì, ci aveva chiamati Johnny Otis, al quale Don Robey della Ace Records aveva dato il compito di trovare una canzone che potesse aver successo per Big Mama. All’inizio fu un po’ difficile poiché lei aveva un approccio alla canzone più da crooner che da cantante blues. Così, con timore e imbarazzo, Jerry la cantò per mostrarle l’intenzione con la quale avrebbe dovuto eseguirla. All’inizio Big Mama non apprezzò molto questa specie di affronto, ma entrò perfettamente nello spirito del brano. Aveva una voce e una presenza incredibile. Il brano ebbe un gran successo nelle classifiche di R&B, ma purtroppo per noi non ne derivò alcun vantaggio: ci diedero un anticipo di 1200 dollari con un assegno che poi risultò scoperto… Per fortuna poi arrivò Elvis».
Che effetto vi fece vedere Elvis allo Steve Allen Show cantare la vostra canzone a un cane bassotto? [Allen usò lo stratagemma per evitare che Elvis si dimenasse e si producesse in un’esibizione scandalosa come quella immediatamente precedente al Milton Berle Show.]
«Lo spirito della canzone fu stravolto, certo, e fu piuttosto imbarazzante. Ma sette milioni di copie vendute ti fanno vedere le cose diversamente…».
Leggi la versione integrale dell’intervista su JAM di ottobre