04/11/2025

Laurie Anderson all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il report (03/11/2025)

Tassello fondamentale dell’avanguardia newyorkese, Anderson porta sul palco romano storie, passato e futuro

 

Non è così semplice raccontare uno spettacolo dal vivo di Laurie Anderson senza cadere nella descrizione didascalica di un’esibizione multimediale, che quindi stimola più sensi dello spettatore e lo coinvolge sul piano emotivo e, a volte, anche fisico. Oggi ci piace chiamarla “esperienza”.

Lunedì sera Laurie Anderson, tra le migliori rappresentati della scena d’avanguardia newyorkese, esponente di quel minimalismo che artisti come John Cage o LaMonte Young avevano sdoganato negli anni ’60, è tornata a Roma nell’ambito di Romaeuropa Festival 2025, per il quale non si esibiva da 15 anni, sul bellissimo palco della sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica.

Unica data italiana di questo tour internazionale, uno spettacolo che porta in scena insieme ai Sexmob, super gruppo veterano della scena downtown di New York, band straordinaria guidata da Steven Bernstein ai fiati.

Lo show si chiama X2, in perfetto stile Anderson che lo sappiamo, oltre a essere una violinista, una scrittrice, una fotografa, un’artista visiva, è anche da sempre una grande esploratrice delle nuove forme tecnologiche che, dice, non devono spaventare se si impara ad usarle e sfruttarle nel migliore dei modi.

Da “narratrice di storie”, come si definisce lei stessa, Laurie Anderson elabora il suo racconto mettendo in campo tutti gli elementi più caldi, più discussi di questo difficile momento storico, in cui tutti, dice lei, sembrano davvero molto arrabbiati. E allora parte dal presidente americano e dal governo, parla della tendenza a pensare agli Stati, di tutto il mondo, come a territori chiusi dentro dei confini e della necessità invece di abbattere queste barriere; fa scorrere sul grande schermo sul fondo del palco, alle spalle della band, un numero incredibile di parole il cui uso è stato vietato negli Stati Uniti, parole che, “se non possono essere usate finiranno per essere dimenticate”; parte dal racconto della storia di suo nonno, allevatore di cavalli a 9 anni e piccolo sposo a 10, così come viene raffigurato dalle immagini generate con l’AI, per parlare proprio dell’intelligenza artificiale e di quanto, senza controllo, possa essere pericolosa.

Lo spettatore passa da un momento all’altro ma è continuamente coinvolto; sembra un mosaico costruito sulla linea sonora del tempo, dove i piccoli pezzi si assemblano l’uno con l’altro su questo tappeto perfetto che alterna sonorizzazioni applicate alle immagini a brani del repertorio storico come Big Science, traccia dell’omonimo disco del 1982, il primo che Laurie Anderson registra e che viene pubblicato dalla Warner.

Sul grande schermo dietro di lei pianeti dalla terra rossa, città piene di grattacieli e paesaggi innevati, ma anche i volti di grandi intellettuali del 900, da Bob Dylan di cui propone un’interessantissima versione di A hard rain’s a-gonna fall con un bellissimo arrangiamento di archi ispirato dalla versione del Kronos Quartet, e poi William Burroughs da cui a metà degli anni 80 mutua il verso Language is a Virus, il linguaggio è un virus, e ne fa una canzone, o piuttosto un mantra, che ripropone durante il concerto di ieri sera; e poi ancora Allen Ginsberg, Arthur Russell, John Cage, Gertrude Stein…

E per chiudere in bellezza, e rendere davvero l’esperienza totale, quando torna sul palco per il bis Anderson fa accenno a Il mio tai chi, il libro che raccoglie gli scritti dedicati da Lou Reed all’arte marziale che ha praticato fino alla fine e che ha tanto amato. L’artista di Chicago invita dunque tutta la sala Santa Cecilia, che risponde in maniera impressionante, ad alzarsi e a praticare qualche movimento di tai chi con lei, un momento di totale connessione, di cui sembra proprio che di questi tempi, si senta una tremenda mancanza.

Fa eco al sonoro applauso con un inchino, lascia il palco e già non vediamo l’ora di incontrarla di nuovo.

Laurie Anderson

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