Le storie dietro le canzoni di Paul McCartney
Luca Perasi viaggia tra musica e idee di Macca con il suo libro Paul McCartney: Music is ideas. Le storie dietro le canzoni (Vol. 1) 1970-1989
La letteratura su Paul McCartney, con e senza Beatles, è sterminata. Al di là delle biografie di comodo, dei racconti prevedibili e superficiali su Sir Paul, è quanto mai doveroso soffermarsi sui testi ragionati, analitici, persino notarili nell’elencazione di informazioni e dati. È questo l’approccio di Luca Perasi, che da autentico maestro della materia, peraltro di riconosciuta competenza internazionale, si è soffermato ancora una volta sul canzoniere firmato Macca. O meglio sulla sua musica e sulle sue idee, in un periodo ben preciso: dal 1970 al 1989. In attesa di terminare la lettura del volume successivo, che copre il lungo periodo dal 1990 al 2022, dialoghiamo con l’autore a proposito di Paul McCartney: Music is ideas. Le storie dietro le canzoni (Vol. 1) 1970-1989.
Dalla fine dei Beatles all’inizio del World Tour. Dal primo Lp solista a Flowers In The Dirt. Dal 1970 al 1980 la vicenda artistica di Paul McCartney è stata pienissima, ricca di alti ma anche di bassi. Quale punto di vista, quale criterio hai adottato per raccontare una storia così complessa?
A mio avviso, il migliore approccio è quello storico. Ognuno potrebbe dire la propria sulla qualità dei lavori di un artista, anche sul più grande compositore pop, che io considero essere McCartney. Ma è una modalità che mostra la corda, sarebbe come essere al bar tra amici. Meglio invece presentare i fatti, le “storie dietro la canzoni” come recita il titolo del libro. Ho messo insieme la canzoni in sequenza cronologica, album per album, singolo per singolo, riunendo fatti, interviste d’archivio e mie, raccogliendo date di registrazione, musicisti. È un approccio anglosassone, ed è questo che mi ha consentito – come già nel 2013 con Paul McCartney: Recording Sessions (che pure conteneva qualche opinione, cosa che ho del tutto eliminato in questo nuovo libro) – di propormi come autore sul mercato internazionale con la traduzione inglese di questo volume nel 2023. Solo questo ti dà autorevolezza. Credo sia questo il motivo per cui sono stato chiamato dalla MPL, la società di McCartney, a fornire la mia consulenza per le informazioni contenute in The 7” Singles Box, il cofanetto uscito a dicembre 2022. Vedere il mio nome accreditato sul libretto rappresenta un traguardo incredibile. Se mi fossi dedicato a “dare i voti” a brani e album, sarei ancora uno dei tanti.
Nella seconda metà degli anni ’60 Paul si è conquistato pian piano un ruolo centrale nei Beatles, tanto da diventarne il regista ma anche il meno disponibile a uno scioglimento. C’è un momento in cui la sua carriera solista, che comincia in sordina almeno dal punto di vista critico, ha avuto un’impennata?
Per Paul la fine dei Beatles è un trauma. Ne ha parlato molte volte, paragonando la sua condizione a quella di chi divorzia o a quella di chi rimane disoccupato. Rimettersi in piedi è per lui difficile, ma dalla sua parte aveva il talento e l’amore di Linda.
La sua carriera parte in sordina solo dal punto di vista dei consensi critici però, perché i suoi primi due dischi, McCartney e RAM, sono grandi successi commerciali e a mio avviso vanno considerati fondamentali per capire il suo percorso artistico. Nel tempo hanno acquisito uno status iconico e io – che adesso derogo alla regola del libro, dove non esprimo giudizi di merito – ritengo che siano i suoi due migliori album, perché presentano McCartney al massimo dell’energia, anche se sono a tratti evanescenti, autoindulgenti e discontinui. Insomma, ce lo mostrano a tutto tondo, nei suoi pregi e nei suoi difetti, nei suoi punti di forza e nei suoi punti deboli, se così possiamo definirli.
L’impennata però avviene nel 1973: due singoli (uno è nientemeno che Live and Let Die), due album, con il secondo, Band on the Run, che è ancora il disco più celebre e celebrato della carriera post-Beatles di Paul.
Questa storia da solista, come detto iniziata con difficoltà, si avvia con una delle sue più belle e famose canzoni: Maybe I’m Amazed. Qualche maligno sostiene che dopo quel brano Paul non abbia più saputo scrivere canzoni così belle…
È un’affermazione piuttosto forte. E non corrisponde a verità, perché in questi 53 anni di carriera solista McCartney ha scritto circa 500 canzoni, e la sua capacità di trovare ispirazioni, soluzioni armoniche e idee non ha paragoni con altri artisti. Certo, Maybe I’m Amazed, proprio perché si ricollega a quei momenti a cavallo tra la fine dei Beatles e l’inizio di una nuova epoca professionale e umana, ha qualcosa di unico. Il titolo esprime fragilità, con quel “maybe” col quale Paul apre il cuore e fa vedere la sua insicurezza sulle cose d’amore, mentre la parte musicale irradia energia, forza, rabbia, entusiasmo. Vocalmente, è una meraviglia. Andrebbe utilizzata come esempio nelle scuole di canto, perché qui McCartney “insegna” come alternare voce piena, falsetto e toni bassi con la più grande disinvoltura. Del resto, siamo di fronte a uno dei più grandi cantanti della storia del rock.
A proposito di bellezza delle canzoni, nel libro hai raccontato la storia dietro ogni brano. In questi venti anni così fitti ma anche eterogenei, esiste un filo rosso che lega ogni canzone di Paul?
Se parliamo dei testi, ci sono diversi fili conduttori, o tematiche, che Paul predilige, ma una su tutte: l’amore. Dal punto di vista musicale, il canzoniere di McCartney è invece un caleidoscopio di influenze e richiami. Paul ama spaziare tra i generi, ma si tratta di pennellate veloci all’interno di un’unica tela che si chiama pop. La sua musica è cantabile e lieve, raffinata ed elegante, senza ambizioni intellettuali né messaggi, trova nella forma il suo significato, è pensata per il mercato: l’uomo della strada ne decreta il successo. L’amore per la melodia è un altro filo conduttore, e rende McCartney molto “latino”, addirittura italiano direi.
Gli anni ’70 di Paul sono anche il decennio degli Wings. A bocce ferme, dopo tanti anni, possiamo pensare che fossero solo un modo per sentirsi parte di una band per Paul, o avevano una funzione e un obiettivo diversi?
Innanzitutto, gli Wings sono per McCartney un modo per tornare ad esibirsi dal vivo. Dopo la fine dei Beatles, l’esigenza principale di Paul è quella di ristabilire un contatto con il pubblico, senza il quale – come vediamo ancor oggi – lui non può vivere. In secondo luogo, è preoccupato per la sua voce, perché senza un’attività live, teme di arrugginirsi. Dopo decenni in cui gli Wings sono stati considerati la band di supporto di McCartney (cosa a mio parere essenzialmente vera, perché la personalità e l’importanza come autore di Paul sono troppo grandi), oggi assistiamo a una rivalutazione del ruolo del gruppo e alla sua riabilitazione in termini di contributo musicale, e nel 2024 è in uscita un documentario sul decennio della band. Ripeto che io sono solo parzialmente d’accordo, perché McCartney in studio ruba la scena spesso e volentieri ai suoi musicisti.
In linea di massima che differenze c’erano tra i suoi Lp solisti e quelli della band? Ad esempio nel 1971 escono sia il suo Ram che il debutto dei Wings Wild Life…
In generale, non molte a mio avviso, perché a prescindere dai contributi dei musicisti che lo accompagnano, alla fine le canzoni sono sempre riconducibili a lui, alla sua penna, al suo estro. Paul ha già tutto in mente, per filo e per segno. È la band al servizio dell’arrangiamento e non il contrario. McCartney è multistrumentista unico, non esiste una formazione tipo degli Wings e i membri della band devono adattarsi alla forma-canzone che Paul ha in mente, o anche stare in sala di controllo ad ascoltare e basta.
Tra il 1974 e il 1977 la chitarra solista degli Wings è Jimmy McCulloch, uno dal talento straordinario anche se è una scheggia impazzita per il temperamento impetuoso. Ebbene, a parte il singolo Junior’s Farm, dove è presente con un eccellente assolo, in tutte le altre hit del gruppo fino alla sua fuoriuscita dalla band (Let’ Em in, Silly Love Songs, Listen to What the Man Said e Mull of Kintyre), McCulloch suona altri strumenti che non la chitarra, suona poco oppure non suona affatto. In dieci anni, sono in tutto quattro i brani firmati solo da altri membri degli Wings, e otto le canzoni quelle cofirmate da Denny Laine e McCartney.
Paul è anche entertainer e personalità dello spettacolo, artefice di collaborazioni imprevedibili come con Michael Jackson e Stevie Wonder. Quale fu il senso di questi connubi? E più in generale qual è stato il ruolo di Paul nella cultura pop degli anni ’80?
Gli anni Ottanta si aprono per Paul con due brutti eventi: in gennaio il suo arresto per possesso di droga in Giappone – che ha come effetto immediato l’annullamento del suo tour nel paese e di fatto dà il colpo di grazia alla sua band, gli Wings – e in dicembre la morte di John Lennon. McCartney entra in una fase diversa, più riflessiva. Capisce che la dimensione della band (o perlomeno di quella band) non fa più per lui, e si costruisce una carriera solista imperniata su collaborazioni di prestigio e lontana dalle frenesie dello show business.
È consapevole che per rimanere al passo coi tempi, deve inventarsi qualcosa. Il duetto con Stevie Wonder è il coronamento di un suo sogno, perché Stevie è un idolo di Paul; la collaborazione con Jackson è il grimaldello per arrivare all’audience di adolescenti dell’epoca. Esperimento riuscito: io ho scoperto McCartney proprio attraverso quel duetto.
Direi che il ruolo di Paul nella cultura pop degli anni Ottanta attraversa tre fasi. Fino al 1983 quella di “padre nobile” del pop: stimato e ancora in grado di fare dischi che vendono. Già Pipes of Peace mostra qualche crepa. Un settimanale musicale inglese intitola la sua recensione del disco Rest in Peace. Segue una fase difficile (1984-1986) dove McCartney cerca di riappropriarsi dell’eredità dei Beatles ma dove soffre l’ingiusto confronto con la memoria di Lennon e dove viene dato per finito troppo presto. Infine, ecco il riscatto: tra il 1987 e il 1989, Paul torna alle sue radici, prima il rock’n’roll col disco di cover Choba B CCCP, poi con il grande Paul McCartney World Tour, dove metà show si appoggia al materiale dei Beatles. È però un richiamo che fa perno sull’orgoglio e non sulla nostalgia.
C’è un brano che amo molto, si chiama Coming Up. Ricordo da bambino il video con tutti i Paul impegnati in vari strumenti. Mi fa venire in mente che Paul è stato ed è un grandissimo uomo di musica. Sei d’accordo se dico che la sua più importante dote è questa instancabile musicalità?
Sì. Paul vive di musica e per la musica. Il bello di quel video, è che McCartney sa suonare, o perlomeno mettere le mani, su una quantità impressionante di strumenti. La musica è la sua linfa. Sin dagli anni Settanta, i giornalisti gli chiedevano quando avrebbe smesso di suonare, e lui ha sempre risposto che fino a quando sarebbe stato vivo e in grado di farlo, avrebbe fatto musica. Bene, oggi McCartney ha 81 anni e chiude il suo 2023 in tournée. Bisogna stare bene per poter fare due ore e mezza di concerto, e oltre ad avere questa fortuna, serve anche la passione per quel che fai. Questo ci insegna molte cose.
A proposito di musicalità, il libro – così come il decennio – si chiude con il travolgente Flowers In The Dirt, quanto è stato importante questo lavoro nella storia di Paul?
È un album fondamentale per McCartney. Intanto, si tratta di un grande disco pop, fatto di canzoni costruite in modo sopraffino. Seconda cosa, contiene la sua collaborazione con Elvis Costello, la più completa e riuscita della carriera post-Beatles di Paul. Ultimo ma non ultimo, è la qualità musicale di questo disco che consente a McCartney di tornare a suonare dal vivo dopo dieci anni. Andare on the road con un disco scadente complica le cose, e infatti nel 1986 Paul rinuncia a mettere insieme una band e a proporsi dal vivo perché il suo album Press to Play è un insuccesso. In più, Flowers in the Dirt lo avvicina a una nuova generazione di pubblico: in un’epoca in cui i grandi numeri a livello di vendite li fanno altri artisti (Madonna, George Michael), l’album vende comunque attorno ai quattro milioni di copie nel mondo.