05/07/2013

«L’unica band che conta»

Mick Jones racconta in anteprima il cofanetto “Sound System”. Su JAM di luglio/agosto

Non erano illusi, non erano rivoluzionari e nemmeno dei santi. Erano profondamente convinti che il rock’n’roll fosse un linguaggio sufficientemente importante da cambiare la vita delle persone. Che valesse la pena tentarci. Che era vera quella cosa della chitarra, del fucile e dei fascisti che aveva scritto Woody Guthrie. I Clash e le loro canzoni parlavano il linguaggio dell’onore, della verità, del sacrificio e della battaglia, tutti termini poi espunti dal vocabolario rock. Per loro non era solo musica: era una questione di vita e di morte.

A rimarcarlo arriverà in settembre (in esclusiva su amazon.it) un box set particolarmente ricco intitolato Sound System. Contenuti in un cofanetto a forma di radio portatile – il ghetto blaster simbolo di più di una controcultura giovanile – i cinque album in studio della formazione rimasterizzati da Tim Young sono affiancati da tre cd di rarità, un dvd e vari gadget fra cui un poster incluso in un tubo a forma di sigaretta. Abbiamo chiesto a Mick Jones di parlarcene. L’ha fatto volentieri, col suo accento tremendo e la sua gentilezza estrema. Ecco un estratto dall’intervista pubblicata sul numero di luglio/agosto 2013 di JAM.

Sound System contiene buona parte della musica pubblicata dalla band. Qual è l’eredità più preziosa che avete lasciato ai posteri?

«Sono cresciuto in un’epoca in cui la scena inglese era dominata dai Big Five: Beatles, Rolling Stones, Who, Kinks e Small Faces. Ogni album che pubblicavano era diverso dal precedente. Erano in costante evoluzione. Se ti mettevi alla ricerca delle loro fonti di ispirazione provenienti dal passato ti accorgevi che erano tutti gruppi con lo sguardo rivolto al futuro. I Clash non erano diversi dai Big Five. Facevamo musica per noi stessi e per i nostri tempi. Il nostro sound poteva essere radicato nel passato, è normale, ma non stavamo copiando qualcun altro: stavamo definendo la nostra identità. Questo è il lascito che i Clash hanno trasmesso alle generazioni che sono venute dopo: lo spirito, l’impulso a cambiare, per continuare a guardare in faccia il futuro. È sorprendente, a pensarci, perché trent’anni fa non avremmo mai pensato che lo spirito della band sarebbe sopravvissuto tanto a lungo. Forse è successo perché la band nel complesso valeva molto di più della somma di noi quattro come individui».

Ascoltando gli album che portano da The Clash del ’77 a Combat Rock dell’82 si è stupiti dalla crescita e dalla varietà delle fonti d’ispirazione. Nessun altro gruppo punk-rock è stato protagonista di un’evoluzione musicale paragonabile alla vostra. Ti sei mai chiesto il motivo? È perché voi eravate più curiosi? O perché eravate musicisti migliori?

«Eravamo mossi da una certa curiosità, questo è certo, e la cosa ci ha permesso di diventare musicisti migliori… anche se eravamo piuttosto maldestri con gli strumenti. L’imperativo era fare un disco diverso dall’altro. Ogni album doveva rappresentare la nostra identità in quel preciso momento».

Le rimasterizzazioni aggiungono qualcosa agli album come li conosciamo?

«Scoprirete dei particolari, dei dettagli sonori di cui non immaginavate l’esistenza. A me è successo. Le possibilità tecniche si sono ampliate significativamente dai tempi delle prime rimasterizzazoni su compact disc. Questo box set è una gran cosa. È… huge, enorme, in tutti i sensi».

Perché il cofanetto non contiene Cut The Crap, l’album del 1985 registrato da Strummer senza di te?

«Non c’è perché quelli non erano i Clash».

In Italia arrivaste nel 1980. Ricordi quel primo tre anni dopo concerto nel nostro Paese, a Bologna? Per gli italiani, ha assunto dimensioni epiche…

«Era forse in una piazza?».

Sì, era Piazza Maggiore. E Topper Headon…

«Topper era in ritardo, come sempre [ride]. Perciò per le prime canzoni suonò con noi il batterista della band di supporto, i Whirlwind, un tipo chiamato George. Ma credo che il pubblico non si accorse della differenza».

È vero che a Bologna perdesti i sensi, dopo esserti colpito da solo con la chitarra?

«Questo non lo ricordo a dire il vero, ma… beh, insomma, forse non ci faccio una gran figura, ma ammetto che è possibile che sia successo. Sai, il livello di energia dei Clash sul palco era incredibile…».

Era normale finire il concerto con contusioni o ferite?

«Oh, era all’ordine del giorno… anche per chi stava sotto il palco [ride]. Far parte di quell’ondata di energia… se ci ripenso, è stato incredibile».

Leggi tutta l’intervista sul numero di luglio/agosto

Esplora il contenuto del cofanetto dei Clash

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