07/02/2017

Mike Oldfield

Il musicista inglese “è tornato a Ommadawn” con il suo nuovo album
Chissà quale direzione segue l’ago della bussola che ha guidato Mike Oldfield nel suo ritorno a Ommadawn. Il ventinovesimo album del musicista inglese, appena uscito, da un lato ha tutti i tratti di un bel viaggio alla riscoperta delle proprie origini musicali: un sentiero che si snoda lungo due grandi movimenti come nei primissimi dischi, tracciato su richiami all’Ommadawn di quarant’anni fa e temi alla Voyager. Registrato e prodotto nel suo studio privato a Nassau, Return To Ommadawn è poi anche una riflessione in solitaria, nella quale Oldfield rifiuta di rinunciare al suo tocco personale suonando tutti e 22 gli strumenti, abbandonandosi a sonorità di stampo celtico più che familiari, con qualche visita elettrica a ricordi prog.
 
Dall’altro lato, i maliziosi potrebbero però notare che il progetto è spuntato in seguito a una ricerca sui social, dalla quale è risultato a sorpresa che l’album più amato dai fan di vecchia data – più del blasonato Tubular Bells – è proprio Ommadawn. Ed ecco che la poesia viene lievemente oscurata dall’ombra della mossa commerciale.
 
La risposta sta probabilmente nel mezzo: Return To Ommadawn è infatti un album che piacerà ai nostalgici; ripropone le sonorità classiche di Oldfield, timbri e tessiture melodiche già collaudate e di sicuro impatto che hanno dato alla sua musica un marchio di fabbrica inconfondibile. Tanto mestiere quindi, ma anche atmosfere ricche di riverberi, distese e fiabesche, che regalano diversi passaggi molto piacevoli, in un lavoro dedito più a emozionare che a stupire; da ascoltare senza colpe con leggerezza, lasciandosi semplicemente coinvolgere.

 

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