Non sbuca dal nulla Mirel Wagner, 26enne cantautrice di origine etiope adottata da una famiglia finlandese subito dopo la nascita. I più attenti non si erano lasciati sfuggire l’omonimo debutto del 2011, una delle cose più intense ascoltate dai tempi della prima Cat Power. Non se l’è fatto scappare la Sub Pop, che ha immediatamente proposto all’artista di lavorare con più calma e mezzi al secondo disco, curandone ora la distribuzione mondiale (vinile, cd e download usciranno l’11 di agosto). Wagner ha preferito lavorare laddove si sente più a suo agio, nei dintorni di casa, registrando col fido produttore Vladislav Delay al Shark Reef Studio di Hailuoto, con l’aggiunta di impercettibili arrangiamenti curati del celebre compositore Craig Armstrong in appena un paio di brani.
Per la verità non le serve molto altro: la voce e l’arpeggio della sua chitarra acustica sono sufficienti a creare un pathos immediato, che lascia l’ascoltatore col fiato sospeso seguendo la lenta e solenne liturgia con cui la giovane Mirel declama ogni singola sillaba (o numero, come nell’iniziale 1,2,3,4), quasi a soppesare l’aura delle parole scelte, ancora prima di affidarle a una melodia. Scarna e coraggiosa nei testi e nelle atmosfere, asciutta come una Jason Molina al femminile, Wagner disegna gli scenari oscuri del suo folk-blues in controluce (The Dirt), spesso in una penombra macabra e senza cornici vitali (Oak Tree, The Devil’s Tongue) con un approccio che appare distaccato e al contempo partecipe, forse a ricordare che non sempre basta il calore di una famiglia a metterti al riparo dai morsi della solitudine interiore (In My Father’s House). Una dopo l’altra, le canzoni di When the Cellar Children See the Light of Day si dipanano in un insieme coeso, dalla potenza catartica impressionante, capace di rievocare in un unicum l’isolamento nel quale sono state composte (Dreamt Of a Wave) e il freddo nordico di cui si è volutamente circondata, alla rierca dell’atto essenziale, senza nemmeno il comfort di un calorifero.
A far da contrasto ad argomenti in cui la morte grava in tutti i suoi aspetti, il calore delle immagini dolcemente serene, sgorgate con naturalezza nella ninnananna conclusiva, visione onirica di un’anima trasparente e matura (Goodnight). Contraddizioni portate al canto con voce sempre bassa e ferma, un timbro che può ricordare i momenti più riflessivi di Nina Simone o quelli più dolorosi di Patti Smith, e che talvolta si trasfigura perfino nell’approccio dolente dell’ultimo Johnny Cash (Ellipsis).
Album diretto e lacerante, “nero come il cielo di una notte senza luna”, riesce tuttavia a proiettare l’intensa luce di una stella che, siamo certi, brillerà per molto tempo nel firmamento della canzone d’autore.