Alberto Crespi distoglie per un momento lo sguardo dalla critica cinematografica per concentrarsi su quella musicale legata al mondo della tradizione americana, o meglio a quella del folk revival e della protesta degli anni ’60, o meglio ancora a Bob Dylan e alla sua Blowin’ In The Wind, che proprio quest’anno compie mezzo secolo. Quante strade sono proprio le medesime «che un uomo deve percorrere prima di essere chiamato uomo». L’idea è intrigante: ogni distico della canzone diventa un capitolo in cui raccontare, divagare e indagare come la protest song per eccellenza di Dylan sia diventata tale senza che in realtà lui lo volesse veramente. Sì, perché Blowin’ In The Wind era soprattutto una splendida «poesia lirica dai toni biblici», con toni esistenziali così forti e comuni per la generazione degli anni ’60 che finì per essere attratta nel gorgo dei movimenti che si battevano per la pace e l’antisegregazionismo ed essere eletta a vero e proprio inno.
Crespi fa un’analisi chiara e puntuale della sua storia che parte da
Many Thousand Gone , uno spiritual di cui si trovano le prime tracce nel periodo della guerra civile americana, per poi strutturarsi meglio in No More Auction Block, che i più informati sanno essere la vera fonte di influenza musicale, o per essere cattivi di plagio, di Blowin’ In The Wind. La buona fede di Dylan sta però nel fatto di avere pubblicamente cantato No More Auction Block dopo avere composto Blowin’ In The Wind, quindi non nascondendo niente e dando per scontato che nell’arte si prende e si dà senza fare troppe storie. A d ogni modo il battesimo ufficiale di Blowin’ In The Wind avviene il 16 aprile 1962 al Gerde’s Folk City, uno degli allora più noti locali del Greenwich Village di New York, là dove giusto un anno prima Dylan aveva avuto il suo primo ingaggio accompagnando all’armonica nientemeno che John Lee Hooker.L’attenzione di Dylan verso temi importanti come il razzismo e la violenza non si liquidano in poche righe, ma certamente la frequentazione di Suze Rotolo, la fidanzata con cui è fotografato nella celebre copertina di Freewheelin’, fu determinante per la costruzione della sua coscienza politica che, non a caso, cominciò a vacillare dal momento in cui si lasciarono. Blowin’ In The Wind nasce «da una discussione inarrestabile al Commons, una coffee house del Village, durante la quale si era parlato di diritti civili e delle promesse non mantenute fatte dall’America», dice Dylan che per non smentirsi nel momento in cui la canta per la prima volta ci tiene ad affermare: «Questa non è una canzone di protesta, perché io non scrivo canzoni di protesta, questa canzone è qualcosa che può essere detta a qualcuno da qualcuno», una dichiarazione un po’ fumosa che certamente non sarebbe piaciuta alla sua futura partner Joan Baez. Ma questi sono solo i primi capitoli del libro che poi, tenendo sempre come pretesto la canzone, racconta una bella storia di Dylan e del mondo che lo ha circondato. Un bel modo per accendere cinquanta candeline e farle spegnere dagli appassionati in un sol soffio. Tanti auguri Blowin’ In The Wind.