Un’epopea. Questo si propone di raccontare il nuovo album del cantautore siciliano Salvo Ruolo, Canciari patruni ‘un è L’bittà (Controrecords, 2015). La sua seconda fatica discografica è prodotta da Cesare Basile e arriva cinque anni dopo Vivere ci stanca: un lustro che evidenzia tutte le differenze riscontrabili tra i due dischi. L’esordio era un esempio di cantautorato contemporaneo, sporcato dalle chitarre elettriche e cantato completamente in italiano; la scelta di campo, in quest’occasione, è stata diametralmente opposta nel metodo, ma del tutto coerente con il messaggio. Canciari patruni, come si evince già dal titolo, è cantato completamente in lingua siciliana: lo stesso Ruolo spiega che si tratta di “quella antica, che oggi quasi non si parla più, studiata su vocabolari come il Mortillaro”, una lingua “colta, aristocratica, e per questo sostituita dal fiorentino” come base dell’italiano. L’album è anche un viaggio sonoro nella tradizione della nostra isola maggiore, un viaggio che, appunto, racconta un’epopea: quel nostro personale, italianissimo “Far West” che è stata l’Unità d’Italia. O meglio, la “malaunità”.
Sì, perché passare dai Borboni al Regno d’Italia viene raccontato, per l’appunto, come un semplice “cambio di padrone”. Sono i Savoia i destinatari polemici di testi come A buttana e Mariuzza Izzu: due donne, come donna è quella terra stuprata dai nuovi signori. Ed è su note che richiamano quel Far West prima annunciato che si apre l’album: Malutempu, uno spaccato degli anni del brigantaggio, adagiato su una melodia portata avanti dal banjo. Eppure, la colpa di una situazione sempre più drammatica va non solo allo Stato italiano, ma anche agli àscari, coloro che hanno tradito il proprio popolo per asservirsi al nuovo padrone per ricevere “una medaglia di cartone”: Ruolo immagina che a rimbrottarli siano Buttita e Balistreri, ossia il poeta Ignazio Buttitta e la cantastorie Rosa Balistreri, due grandi personalità siciliane che hanno dato lustro alla loro regione durante lo scorso secolo.
Ma la fierezza di questo popolo emerge fortemente in Re’pitu, brano che prende il titolo dal pianto rituale che le reputatrici, appunto, eseguivano in occasione di un decesso. “Nudda motti nni po’ ddari scantu / nuddu hie’ dannatu e nuddu hieni santu” (“Nessuna morte ci fa paura / Perché nessuno è dannato e nessuno è santo”). Emerge un’umanità consapevole, come quella di un padre che, nonostante la morte del figlio, non può far altro che contemplare la natura e la sua onnipotenza. E la morte, la suprema consolazione nell’epilogo di Picchì Brisci Accussì Notti, è il soggetto di una ninna nanna disturbante, dagli accenti blues. La ninna nanna definitiva, quella del sonno da cui non ci si vuole più svegliare.
Sì, perché passare dai Borboni al Regno d’Italia viene raccontato, per l’appunto, come un semplice “cambio di padrone”. Sono i Savoia i destinatari polemici di testi come A buttana e Mariuzza Izzu: due donne, come donna è quella terra stuprata dai nuovi signori. Ed è su note che richiamano quel Far West prima annunciato che si apre l’album: Malutempu, uno spaccato degli anni del brigantaggio, adagiato su una melodia portata avanti dal banjo. Eppure, la colpa di una situazione sempre più drammatica va non solo allo Stato italiano, ma anche agli àscari, coloro che hanno tradito il proprio popolo per asservirsi al nuovo padrone per ricevere “una medaglia di cartone”: Ruolo immagina che a rimbrottarli siano Buttita e Balistreri, ossia il poeta Ignazio Buttitta e la cantastorie Rosa Balistreri, due grandi personalità siciliane che hanno dato lustro alla loro regione durante lo scorso secolo.
Ma la fierezza di questo popolo emerge fortemente in Re’pitu, brano che prende il titolo dal pianto rituale che le reputatrici, appunto, eseguivano in occasione di un decesso. “Nudda motti nni po’ ddari scantu / nuddu hie’ dannatu e nuddu hieni santu” (“Nessuna morte ci fa paura / Perché nessuno è dannato e nessuno è santo”). Emerge un’umanità consapevole, come quella di un padre che, nonostante la morte del figlio, non può far altro che contemplare la natura e la sua onnipotenza. E la morte, la suprema consolazione nell’epilogo di Picchì Brisci Accussì Notti, è il soggetto di una ninna nanna disturbante, dagli accenti blues. La ninna nanna definitiva, quella del sonno da cui non ci si vuole più svegliare.