A primo ascolto si manifesta subito come un tributo all’Africa per le tematiche affrontate, per le sonorità e per gli ospiti presenti nel lavoro. In generale però c’è tanto amore e tanto impegno sociale nelle parole di Sarah Jane Morris.
Spesso viene ricordata per il successo pop di Don’t Leave Me This Way, collaborazione che la vedeva in duetto con Jimmy Sommerville dei Communards. Tante volte poi viene associata al jazz, forse perché, come dichiarato da lei stessa in alcune interviste, suona spesso nei club che propongono tale musica. E’ però riduttivo incasellare la cantante in un genere preciso, vista anche la sua energia multiforme e il suo piglio live, trasferiti pure qui, nel suo nuovo album Bloody Rain.
L’estensione vocale di quattro ottave di Sarah Jane Morris viene coniugata seguendo il solito schema a metà tra Nina Simone e Janis Joplin e si abbina al lavoro di scrittura di gran parte dei brani, compiuto con il collaboratore di lunga data Tony Remy, ma anche con l’apporto fondamentale dei chitarristi Dominic Miller e Tim Cansfield, del batterista Martyn Barker, del bassista Henry Thomas, nonché del solito Johnny Brown e di suo marito Mark Pulsford.
A quest’ultimo e alla madre Joy di ottant’anni è dedicato proprio il gioioso brano di apertura, Feel The Love. Il “quadro familiare” è protagonista poi in altri pezzi, come ad esempio Wild Flowers, scritto sempre per la madre Joy e in cui suonano anche il senegalese Seckou Keita alla kora, il brasiliano Adriano Adewale alle percussioni e Avishai Cohen, musicista newyorchese nato a Tel Aviv, al flicorno. Tanti altri ospiti fanno parte del disco come il cantautore nigeriano Keziah Jones in I Shall Be Released, brano scritto originariamente da Bob Dylan e qui più funky, o la vocalista Eska dallo Zimbabwe che va ad impreziosire la title-track Bloody Rain. L’armonica di Adam Glasser introduce il Soweto Gospel Choir e diventa protagonista nel crescendo di Coal Train, una reinterpretazione di Stimela, il classico sudafricano conosciuto soprattutto grazie a Hugh Masekela, in cui si affronta il tema dell’apartheid. E ancora tanta Africa nel senso di impegno sociale e non di semplice celebrazione delle sue bellezze naturali o della sua semplicità è presente in David Kato, un sentito omaggio dell’artista all’insegnante ugandese e attivista per i diritti dei gay, assassinato nel 2011.
Insomma, Bloody Rain è un viaggio che musicalmente inizia dall’Africa e man mano si spinge verso nuovi lidi per affrontare tematiche forti, sostenere i più deboli e celebrare i propri amori con la passione e la durezza delle quattro ottave di Sarah Jane Morris. Da ascoltare e da approfondire (come se fosse) dal vivo.
Spesso viene ricordata per il successo pop di Don’t Leave Me This Way, collaborazione che la vedeva in duetto con Jimmy Sommerville dei Communards. Tante volte poi viene associata al jazz, forse perché, come dichiarato da lei stessa in alcune interviste, suona spesso nei club che propongono tale musica. E’ però riduttivo incasellare la cantante in un genere preciso, vista anche la sua energia multiforme e il suo piglio live, trasferiti pure qui, nel suo nuovo album Bloody Rain.
L’estensione vocale di quattro ottave di Sarah Jane Morris viene coniugata seguendo il solito schema a metà tra Nina Simone e Janis Joplin e si abbina al lavoro di scrittura di gran parte dei brani, compiuto con il collaboratore di lunga data Tony Remy, ma anche con l’apporto fondamentale dei chitarristi Dominic Miller e Tim Cansfield, del batterista Martyn Barker, del bassista Henry Thomas, nonché del solito Johnny Brown e di suo marito Mark Pulsford.
A quest’ultimo e alla madre Joy di ottant’anni è dedicato proprio il gioioso brano di apertura, Feel The Love. Il “quadro familiare” è protagonista poi in altri pezzi, come ad esempio Wild Flowers, scritto sempre per la madre Joy e in cui suonano anche il senegalese Seckou Keita alla kora, il brasiliano Adriano Adewale alle percussioni e Avishai Cohen, musicista newyorchese nato a Tel Aviv, al flicorno. Tanti altri ospiti fanno parte del disco come il cantautore nigeriano Keziah Jones in I Shall Be Released, brano scritto originariamente da Bob Dylan e qui più funky, o la vocalista Eska dallo Zimbabwe che va ad impreziosire la title-track Bloody Rain. L’armonica di Adam Glasser introduce il Soweto Gospel Choir e diventa protagonista nel crescendo di Coal Train, una reinterpretazione di Stimela, il classico sudafricano conosciuto soprattutto grazie a Hugh Masekela, in cui si affronta il tema dell’apartheid. E ancora tanta Africa nel senso di impegno sociale e non di semplice celebrazione delle sue bellezze naturali o della sua semplicità è presente in David Kato, un sentito omaggio dell’artista all’insegnante ugandese e attivista per i diritti dei gay, assassinato nel 2011.
Insomma, Bloody Rain è un viaggio che musicalmente inizia dall’Africa e man mano si spinge verso nuovi lidi per affrontare tematiche forti, sostenere i più deboli e celebrare i propri amori con la passione e la durezza delle quattro ottave di Sarah Jane Morris. Da ascoltare e da approfondire (come se fosse) dal vivo.