19/10/2014

The Devil Makes Three

Un’intelaiatura grezza in cui la band sistema armonizzazioni nobili, partendo dalle proprie radici americane
Non c’è batteria, ma non è assolutamente necessaria per dar luogo a quel groove che continua a non mancare nemmeno in questa quarta fatica discografica del trio originario del Vermont.
 
The Devil Makes Three è un’idea legata alla tradizione del folk americano in cui il gruppo si produce in un ragtime infarcito di garage, bluegrass, blues, ma anche di punk, country e jazz. Il passato incontra il presente. Chitarre, contrabbasso e banjo sono alla base di un’intelaiatura grezza in cui si sistemano armonizzazioni nobili, figlie di lunghi viaggi e di esperienze live con artisti del calibro di Willie Nelson, Rodney Crowell, Trampled by Turtles, Yonder Mountain String Band e di festival come Bonnaroo, Lollapalooza, Hardly Strictly Bluegrass, Treasure Island e tanti altri.
 
Il trio ha incontrato il grande Buddy Miller, produttore di tale lavoro registrato allo studio Easy Eye Sound di Dan Auerbach dei Black Keys. Ma ciò che incontra nei suoi singoli pezzi lo proietta senza dubbio in chiave live, perché non può non essere così nei sapori del sud degli Stati Uniti presenti in Stranger o nella danza trascinante di Worse Or Better o di Dead Body Moving. E poi i tre musicisti sanno toccare altri sentimenti in ballad come A Moment’s Rest o Goodbye Old Friend e sanno tener fede alla tradizione, all’America e a certi concetti musicali tipicamente americani con il bluegrass di Hallelu, brano contro l’ipocrisia cristiana. I testi sono spesso cupi, ma anche ironici, in contrapposizione netta con la musica caratterizzata sempre da un certo incalzare divertito. È questo ad esempio anche il caso del country di Forty Days, dove si immagina un diluvio in grado di mettere in ginocchio una città intera.
 
Pete Bernhard, Lucia Turino e Cooper McBean attraversano senza problemi un percorso vintage (e non antico) ma allo stesso tempo moderno. Il trio non si ferma e non può fermarsi mai nei circa 34 minuti di I’m A Stranger Here.
Da ascoltare tutto d’un fiato.
 
 

 

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