Killing The Classics, uccidendo i classici. E quale modo migliore per farlo, se non quello di trasformare legno, ottone, corde e pelli in elettricità e ciò che è acustico per eccellenza in elettronica?
Passati due anni dall’apprezzato Dialects torna Vito Ranucci, compositore e sassofonista napoletano che ama immergere le mani nei generi più disparati, dedicandosi anche alle colonne sonore per il teatro e il cinema.
In KTC – Killing The Classics, Ranucci stavolta rielabora le opere di alcuni tra i più grandi autori della musica classica dal Seicento fino ai primi del Novecento, appropriandosene e rileggendole con la sua lente. La Sinfonia numero 40 di Mozart diventa Amadeus, la Gnossienne n°1 di Erik Satie La Danse, la Pavane pour une infante défunte di Ravel viene ribattezzata Innocence, e lo stesso destino tocca alle composizioni di Puccini, Vivaldi, Beethoven, Chopin e Bach.
Senza mostrare alcuna soggezione, il musicista mischia sacro e profano. Sfrutta le straordinarie melodie della classica, ne scompone i temi, li trasforma e li rimodella. Le fa sue piegandole alle sonorità e ai linguaggi della techno e della musica elettronica, scoprendo al loro interno una innegabile inclinazione popular.
Nelle uniche due composizioni completamente originali, Ranucci cerca poi di creare connessioni con le altre arti per espandere i confini espressivi e di significato della musica: si rifà alla letteratura in Tempus Fugit, scaturita dalle pagine delle Epistole a Lucilio di Seneca; ridipinge con le note il trittico del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch in Lost In The Garden, come già aveva fatto nel disco omonimo del 2006.
Se a uno sguardo superficiale l’idea di KTC – Killing The Classic non appare nuova, è resa più interessante non solo dalla perizia del compositore, ma anche dalle sue motivazioni. È un assassinio, quello perpetrato da Ranucci, che rappresenta piuttosto un atto d’amore, mosso dal desiderio di restituire poi nuova vita alla musica classica, affrancandola dalle imposizioni che la vorrebbero cristallizzata e sempre uguale a se stessa. Non una mancanza di rispetto, ma l’emancipazione di un artista che vuole esercitare il suo diritto di rimettere tutto in discussione.
Passati due anni dall’apprezzato Dialects torna Vito Ranucci, compositore e sassofonista napoletano che ama immergere le mani nei generi più disparati, dedicandosi anche alle colonne sonore per il teatro e il cinema.
In KTC – Killing The Classics, Ranucci stavolta rielabora le opere di alcuni tra i più grandi autori della musica classica dal Seicento fino ai primi del Novecento, appropriandosene e rileggendole con la sua lente. La Sinfonia numero 40 di Mozart diventa Amadeus, la Gnossienne n°1 di Erik Satie La Danse, la Pavane pour une infante défunte di Ravel viene ribattezzata Innocence, e lo stesso destino tocca alle composizioni di Puccini, Vivaldi, Beethoven, Chopin e Bach.
Senza mostrare alcuna soggezione, il musicista mischia sacro e profano. Sfrutta le straordinarie melodie della classica, ne scompone i temi, li trasforma e li rimodella. Le fa sue piegandole alle sonorità e ai linguaggi della techno e della musica elettronica, scoprendo al loro interno una innegabile inclinazione popular.
Nelle uniche due composizioni completamente originali, Ranucci cerca poi di creare connessioni con le altre arti per espandere i confini espressivi e di significato della musica: si rifà alla letteratura in Tempus Fugit, scaturita dalle pagine delle Epistole a Lucilio di Seneca; ridipinge con le note il trittico del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch in Lost In The Garden, come già aveva fatto nel disco omonimo del 2006.
Se a uno sguardo superficiale l’idea di KTC – Killing The Classic non appare nuova, è resa più interessante non solo dalla perizia del compositore, ma anche dalle sue motivazioni. È un assassinio, quello perpetrato da Ranucci, che rappresenta piuttosto un atto d’amore, mosso dal desiderio di restituire poi nuova vita alla musica classica, affrancandola dalle imposizioni che la vorrebbero cristallizzata e sempre uguale a se stessa. Non una mancanza di rispetto, ma l’emancipazione di un artista che vuole esercitare il suo diritto di rimettere tutto in discussione.