Ve la immaginate la scena? L’ex vicepresidente di Sony Electronics che detta le regole al rocker più selvaggio della storia. Il chitarrista James Williamson che restituisce senza tanti complimenti le canzoni a Iggy Pop dicendogli che può fare di meglio, grazie. Eppure è andata così, come racconta il cantante nell’intervista sul numero di maggio di JAM.
Co-protagonista degli ultimi scampoli di vita degli Stooges, riapparso al fianco di Iggy dopo una brillante carriera nel campo delle tecnologie, Williamson ha ripreso in mano la chitarra elettrica dopo trent’anni. In sei mesi ha riacquistato confidenza con lo strumento – grazie a buone sinapsi e memoria muscolare, ci ha detto – e oggi è una delle forze motrici della formazione. Orfana di Ron Asheton, la band ha ripreso il nome col quale incise quarant’anni fa il prodigioso, sgrammaticato, urticante Raw Power, il padre di tutti i dischi garage punk.
Quanto credito merita Williamson per il quinto disco degli Stooges, o meglio per il secondo album di Iggy And The Stooges? Difficile dirlo oggi. Una cosa è certa: Ready To Die è due spanne sopra The Weirdness, l’album del ritorno nel 2007. Affiancati all’epoca da Steve Albini – che com’è noto si limita a registrare la musica rifiutandosi di ricoprire il ruolo di produttore artistico – il cantante, i fratelli Ron (chitarra) e Scott Asheton (batteria) e Mike Watt (basso) avevano offerto una performance piatta, per lo meno per gli standard della formazione. Forse Iggy aveva bisogno di qualcuno che lo spronasse. Fatto sta che le dieci canzoni di Ready To Die ci restituiscono una band a tratti esplosiva, in grado di maneggiare con facilità la materia rock, e in parte rinnovata grazie all’idea del chitarrista di suonare una Weissenborn e all’uso da parte del cantante di un registro particolarmente basso e profondo.
Niente a che vedere coi dischi di fine anni ’60, inizio ’70, beninteso. Iggy Pop ha 66 anni, Asheton e Williamson viaggiano sui 63. L’ex Minutemen e fIREHOSE Mike Watt fa la figura del ragazzino coi suoi 55 anni. Inutile aspettarsi la carica rivoluzionaria di quei dischi lì. Però Ready To Die se la batte con gran parte delle cose rock in circolazione e fa una gran figura all’interno della discografia di Iggy, che negli ultimi anni si è dedicato a progetti riusciti a metà come un album ispirato a La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq (Préliminaires) e una raccolta di cover che strizzano l’occhio alla chanson (Après). No, i progetti raffinati non sono il suo forte. E infatti qui tira fuori il peggio di sé, per così dire. Sesso, soldi, lavori scadenti, tette, armi da fuoco, botte e morte: la vita vista dal punto d’osservazione di Iggy Pop è lo schifo di sempre, eppure Ready To Die non assume mai toni apocalittici. Il vigore, il sottile senso dell’umorismo che emerge anche nei brevi trailer apparsi su Internet e lo spirito rock’n’roll vecchia scuola rendono l’album bruciante d’energia.
Fra muri di chitarre elettriche e beat da cavernicoli e battiti di mani e coretti dal tocco sexy, Iggy tira fuori buone melodie e canta in modo vario ed espressivo (grazie, James), Asheton e Watt serrano i ritmi e Steve Mackay offre squarci di rock metropolitano col suo sassofono. E Williamson? Se nel 1973 nessuno suonava come lui – non era un fatto tecnico, ma di spirito e sound – oggi il suo stile è oggettivamente datato. Eppure finché si misura con canzoni vitali riesce a non fare notare i propri limiti.
E poi ci sono le piccole sorprese. Come Unfriendly World, dove Iggy canta nel registro basso tirando fuori la sua voce più profonda, mentre Williamson mette le mani di una Weissenborn comprata a un mercatino delle pulci e ci cava brevi scivolate blues degne di No Expectations degli Stones. O come DD’s, inno al seno (la doppia D) con un piglio da rhythm & blues anni ’60 deturpato da ragazzotti di provincia e il sax di Mackay che contende la scena alla voce di Iggy. O ancora la semiacustica Beat That Guy che mette assieme sorprendentemente grazia aristocratica anni ’60 e ruvidità di strada.
Non si cerchino rivoluzioni in Ready To Die. È un disco semplice, conciso (35 minuti), un filo chiassoso e per nulla pretenzioso. E nel finale cerca pure di commuovere. The Departed, che prende nome dal film di Martin Scorsese, è un omaggio a Ron Asheton e una riflessione sul destino dei party boys, dei ragazzi selvaggi. Williamson prende in mano la Weissenborn e Iggy carezza le parole con la coolness dell’amico Lou Reed. Anche i duri piangono.
Leggi il servizio di dieci pagine, con interviste a Iggy Pop e James Williamson, sul numero di maggio di JAM