Il microsolco della follia dei Pink Floyd
Il libro di Marco Dainese per Mimesis sul capolavoro floydiano
Il successo commerciale, il passare del tempo e la retromania, la messe di studi e l’abbondanza di tributi rendono i grandi album della storia del rock un fenomeno che sfida l’oblio. A mezzo secolo di distanza l’interesse per dischi-esperienza come The Dark Side Of The Moon non cessa, anche perché è puntualmente alimentato da esigenze di catalogo – ristampe, remaster etc. – ma anche da una saggistica che spesso prova a raccontare le cose in modo trasversale. È il caso di The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd. Nel (micro)solco della follia, edito da Mimesis, a cura di Marco Dainese, che intervistiamo.
Inevitabile partire, caro Marco, con una domanda impellente: come mai a cinquant’anni di distanza c’è ancora interesse per Dark Side?
Credo che The Dark Side Of The Moon rappresenti uno standard di qualità, un oggetto musicale che ha fissato, più o meno volontariamente, un paradigma verso il quale poi tanta musica ha cercato di tendere. Il disco è così emblematico perché sviluppa il suo valore su vari fronti, nei confronti dei quali diventa necessariamente un punto di riferimento: la qualità tecnica della registrazione, il nitore geometrico della copertina, la simbiosi tra la musica e il corredo grafico e, non da ultimo, la definizione di soluzioni musicali inizialmente azzardate e poi, in breve tempo, quasi accademiche.
La follia è un argomento assai gettonato nella storia del rock – come testimonia All The Madmen di Clinton Heylin – ma anche utile per comprendere il capolavoro del 1973. Che lettura hanno dato al tema della follia i Pink Floyd?
Una lettura non colta e non letteraria. Roger Waters, che fu il paroliere di tutti i brani del disco, aveva le idee chiare: dal punto di vista testuale i Pink Floyd dovevano uscire dal caleidoscopio lisergico della psichedelia, dovevano emanciparsi da una letteratura fantastica ed enigmatica per arrivare in maniera più diretta al pubblico, senza che l’ascoltatore fosse costretto a smarrirsi nel labirinto dell’interpretazione. Per questo i testi di The Dark Side Of The Moon sono semplici, poco strutturati a livello sintattico, quasi privi di figure retoriche: la comunicazione doveva essere efficace e poco mediata. L’intenzione di arrivare più velocemente al pubblico passò anche attraverso la scelta di temi molto avvertiti socialmente come lo stress, la pressione nei rapporti sociali, l’alienazione lavorativa: sono tutte difficoltà che, se non avvertite, possono far precipitare l’individuo nella follia. Il concept non scivola nella psicologia o nella psichiatria – che dovrebbero essere gli ambiti di intervento “canonici” di fronte al problema della pazzia – ma viene plasmato in possibilità quotidiane, spesso avvertite anche dagli stessi Floyd (The Dark Side Of The Moon contiene molti elementi autobiografici): la paura di volare, lo scorrere inesorabile del tempo, l’ossessione per il denaro, ecc.
Insieme a The Wall, Dark Side è il concept più venduto della storia, dato commerciale assai rilevante. Quali sono le peculiarità del formato concettuale nel modus operandi di Waters e soci?
The Dark Side si trova al centro di una triade composta anche da Meddle (1971) e Wish You Were Here (1975): questi tre dischi rappresentano, secondo me, l’apice compositivo dei Pink Floyd prima che, a partire già da Animals (1977), la figura di Roger Waters cominciasse ad apparire sempre più ingombrante. Il loro modus operandi, affinatosi negli anni della psichedelia, si basava su un concetto tanto banale quanto funzionale: la collaborazione. Ogni membro del gruppo sapeva di poter dare il meglio di sé in alcuni particolari momenti musicali, sapeva di possedere determinate qualità in termini di gusto e di composizione, aveva voce in capitolo nelle scelte tecniche: una “somma” di contributi che poi ha dato un “totale” maggiore rispetto alle aspettative. The Dark Side Of The Moon contiene la musica di quattro musicisti, di quattro “teste”, tutte pensanti e tutte ancora rispettose dell’opinione altrui.
Il 1973 è uno degli anni chiave per la storia del rock, Dark Side è l’album di punta di quella formidabile annata ma guarda anche al futuro. Quanto c’è di tipico del periodo nel disco e quanto invece di profetico?
La musica (così come la letteratura e, in generale, le arti) non è profetica; in alcuni casi prefigura concetti o argomenti che poi suscitano un interesse duraturo nel tempo, ma non ha l’ambizione di prevedere il futuro. Vuole invece mostrare il presente (spesso attraverso una rielaborazione del passato) e il prog dei primi anni ’70 è una musica che avverte fortemente l’urgenza del presente. Proprio per questo ho dedicato nel libro un capitolo all’estetica e alla critica del genere progressive in generale, dopodiché mi sono concentrato sull’analisi degli altri grandi capolavori che il 1973 ci ha regalato (Genesis, Led Zeppelin, King Crimson, EL&P); volevo illustrare questa comunità di intenti, in cui The Dark Side Of The Moon è uno degli elementi – sicuramente quello di maggior successo – ma non l’unico.
Soffermiamoci allora sui controversi rapporti tra i Pink Floyd e il rock progressivo. Quali sono le affinità e quali le divergenze?
Quando inizia ad ascoltare prog da adolescente, mi posi questa domanda: ma i Pink Floyd sono un gruppo progressive? La risposta sembrava scontata, ma io mi ponevo il problema. Partivo dal presupposto che il genere si distinguesse per la perizia strumentale e compositiva dei musicisti (virtuosismo funambolico, scomposizione ritmica, scritture musicali “cerebrali”), nonché per la rielaborazione della cultura letteraria in una musica che non fosse classica: di conseguenza non mi apparivano come un gruppo prog perché erano alieni a questi presupposti. La maturità poi mi ha portato a notare l’affinità tra il loro approccio musicale e quello dei colleghi progressivi, cioè la ricerca: il progressive rock è una musica di ricerca, di tensione intellettuale che, attraverso l’interdisciplinarietà, svincola le note e l’armonia dalla tradizione e produce nuova conoscenza. Nello specifico i Pink Floyd hanno condotto la loro ricerca lungo alcune direzioni, magari non intraprese da altri musicisti: il fascino per la nuova organologia, il connubio tra musica e cinema, la multimedialità nel live.
I Pink Floyd sono il gruppo dell’immaginario, i loro album sono sempre stati esempi formidabili di mixed-media poiché uniscono stimoli artistici e connettono varie aree del sapere. Da questo punto di vista cosa troviamo di speciale in Dark Side?
La multimedialità proverbiale dei Pink Floyd si manifestava in tutta la sua pienezza durante i concerti; è una controparte imprescindibile quando si studia questo gruppo ed è per questo che nel mio libro dedico una sezione proprio alla resa live del disco, dal 1972 (un anno prima della pubblicazione) al 1994. Limitandoci invece al solo oggetto discografico, The Dark Side Of The Moon spicca perché è un disco incredibilmente tecnico, presenta soluzioni tecniche inizialmente insolite ma poi straordinariamente efficaci. Tra le tante: un uso poco ortodosso del nastro magnetico durante le registrazioni, i nuovi sintetizzatori, la gestione delle armonie vocali, gli elementi “concreti” ed extramusicali che accompagnano i brani, il vocalizzo abbagliante di The Great Gig in the Sky, ecc. Lo sforzo in questo senso venne intrapreso da tutti e cinque i compositori, perché includo anche Alan Parsons, il cui contributo e la cui intelligenza furono determinanti nel processo di realizzazione dell’opera.
Inevitabile parlare della copertina firmata Hipgnosis, che ha raggiunto una sua autonomia artistica rispetto all’album… ma nell’economia dell’opera che ruolo e funzione ha avuto?
Se con il termine “economia” intendiamo il ruolo che la copertina ha avuto nel progetto creativo dell’album, direi che questo è stato quasi nullo: i Pink Floyd affidarono la realizzazione della parte grafica allo studio di Storm Thorgerson e scelsero poi una delle sette proposte che l’artista mostrò alla band. Le “leggende” narrano addirittura che la scelta avvenne molto velocemente e trovò – caso insolito – tutti e quattro i musicisti concordi. Se invece “economia” si riferisce alla fortuna commerciale del disco, allora in questo caso si può parlare di un contributo determinante. Difficilmente nella storia delle copertine rock possiamo trovare un esemplare universalmente così noto, tanto da diventare una vera e propria “icona pop” in una miriade di citazioni e trasformazioni. Insieme alla mucca di Atom Heart Mother è la soluzione più geniale nella discografia dei Pink Floyd perché insiste sull’enigma, sul chiedersi quale strabiliante musica si potrebbe nascondere dietro un’immagine così semplice e, allo stesso tempo, così straniante. In quel nero così opprimente (dark, appunto) l’occhio subisce un’ipnosi quasi “vitruviana”, alla maniera leonardesca: un formato quadrato (la copertina) che contiene un cerchio (il vinile), al centro del quale ruota un triangolo equilatero.
Dark Side ribadisce l’allontanamento dei Pink Floyd dalla loro origine underground e psichedelica. Mantra da salotto, avrebbe detto Julian Cope… eppure siamo ancora qui a studiarlo: che eredità lascia questo album?
Mi permetto di allargare il concetto di eredità da The Dark Side Of The Moon a buona parte del progressive rock inglese della prima metà degli anni ’70. Che eredità ci lascia tutta questa musica? Io affermo che ci lascia una doppia eredità. La prima è un’eredità tecnica, per “addetti ai lavori”. Questa musica – come ho cercato di fare nel mio libro – può essere un grande oggetto di studio musicologico. Sappiamo che la musicologia ha da tempo lasciato la sua zona di comfort (la musica classica), ma di lavoro da fare ce n’è ancora tanto. Lo spazio c’è e può essere occupato dai contributi degli accademici e dei giornalisti musicali, in modo da ampliare la nostra conoscenza sull’argomento. La seconda eredità è più popolare: chiunque può ascoltare The Dark Side Of The Moon e regalarsi 45 minuti di qualità, una sana parentesi di solitudine in cui godere di una musica indiscutibilmente appagante e, tramite una minima conoscenza della lingua inglese, affrontare una riflessione su temi ancora estremamente attuali, come la frenesia e le ossessioni che punteggiano (o tormentano, dipende dai punti di vista) la nostra quotidianità.