Prima nel 1976 a Kingston e poi l’anno successivo durante l’Exodus Tour. Due occasioni per seguire da vicino Bob Marley e raccontare la sua musica e tutto ciò in cui credeva attraverso alcuni scatti. È quello che ha fatto all’epoca il celebre fotografo David Burnett.
Per lui più di 40 anni di esperienza in 80 Paesi, tanti eventi documentati attraverso il suo obiettivo e tanti premi vinti in ambito fotogiornalistico come il “World Press Photo of the Year” e la “Robert Capa Gold Medal” dell’Overseas Press Club. E poi, in un recente numero della rivista “American Photo”, il suo nome è stato inserito tra le “100 personalità più importanti della fotografia”.
Fondatore della nota agenzia fotogiornalistica Contact Press Images, Burnett ha documentato con i suoi scatti diversi eventi storici come il conflitto in Vietnam o la caduta del Muro di Berlino, ma ha assistito anche a importanti manifestazioni sportive come le Olimpiadi dal 1984 ad oggi e ha fotografato i presidenti degli Stati Uniti d’America da Kennedy a Obama.
Ma, come si diceva all’inizio, David Burnett ha raccontato con le sue foto anche la Giamaica, il reggae e soprattutto Bob Marley. La prima volta per Life, la seconda per Rolling Stone.
E adesso le tante immagini nate da quell’incontro sono esposte fino al 19 aprile alla Wall Of Sound Gallery di Alba (Cuneo) (www.wallofsoundgallery.com) nell’ambito della mostra Bob Marley. Soul Rebel.
Giusto il tempo dei convenevoli, sedersi a un tavolo, ordinare un tè e immergersi pacatamente in un viaggio a ritroso per descrivere quei momenti trascorsi con una vera e propria leggenda…
Cosa ricordi del tuo primo incontro nel 1976 con Bob Marley?
Sono volato in Giamaica e forse la cosa più importante è che non sapevo realmente chi fosse Bob e sapevo proprio poco del reggae. Avevo sentito la parola, ma non sapevo di cosa si trattasse. Avevo sentito giusto un po’ Jimmy Cliff…
Avevo trascorso quel pomeriggio con Bob a Kingston ed ero rimasto davvero colpito, nonostante avessimo quasi la stessa età (lui era un anno più vecchio di me). Sembrava un tipo molto saggio e sembrava aver interpretato la vita in una maniera molto semplice e allo stesso tempo sofisticata. Le conversazioni erano sulla musica, sulla politica, sulla giustizia e sulle cose basilari della vita. Era un “figo”, ma era anche intelligente e saggio! Era davvero saggio, sebbene avesse solo 31-32 anni… In confronto a lui, io ero un fotografo e viaggiavo per il mondo, ma non avevo la sua saggezza. Era saggio e questo si capiva dalla sua musica.
Ci sono foto inedite nella mostra?
Sì, la maggior parte. Io sono stato con Bob due volte: la prima a Kingston per un giorno e poi un anno dopo insieme alla band durante l’Exodus Tour per quattro giorni. Non ho trascorso settimane, settimane e settimane con lui. Le foto di Kingston sono state scattate in un giorno e lui era un soggetto eccellente. Non si metteva in posa. Era completamente a suo agio con sé stesso e questo traspare dalle foto.
Bob Marley era famoso per i suoi dread, ma tu per esempio hai fotografato anche le sue mani…
Aveva bellissime mani… Quando sei un fotografo, ti metti lì ad osservare per tutto il tempo e allora guardi gli occhi, le mani… Il fotografo è attirato da qualcosa di simbolico o che possa fornire una rappresentazione simbolica di ciò che si vede. E allora ho fotografato le sue mani perché mi sembrava solo la cosa più naturale da fare. Sono sicuro di non aver pensato alla cosa in sé più di cinque secondi e ho scattato.
Cos’altro ti ricordi dell’Exodus Tour?
Per me la cosa più importante è stata girare in pullman insieme alla band. “Tutti andavano avanti con la loro vita” e non avevano bisogno di posare per me. Tutti facevano quello che avrebbero fatto normalmente ed era come se io non ci fossi. Probabilmente essere testimone di quel momento è stata la cosa più bella. Tutto ciò era grandioso perché oggigiorno è quasi impossibile vivere quel tipo di esperienza così vicina a un artista, un cantante, una celebrità… Per un fotografo è importante semplicemente esserci e per me è stato importante essere lì perché mi interessava solo essere lì.
Com’era la giornata tipo di Bob Marley nei giorni in cui lo hai seguito da vicino?
Per quello che ho visto io, la maggior parte del tempo lo trascorrevamo viaggiando. Poi si arrivava e si guardava il palco che molto spesso era poco adorno, poco chic… anzi… era tutto tranne che chic! Era un grande spazio adatto ad accogliere tante persone. Poi il gruppo faceva il soundcheck e, se tutto era ok e non avevano nient’altro da fare, spuntava subito un pallone e iniziavano a giocare a calcio. Le partite non finivano mai e avrebbero giocato per settimane a calcio. Lui e gli altri membri della band erano fanatici di calcio.
Cosa ricordi invece dei Wailers e degli altri artisti giamaicani che hai fotografato in quel periodo?
Prima di andare a Kingston, ho trascorso qualche giorno con altre band e con Burning Spear e lì son venuti fuori degli ottimi scatti perché era molto… come dire… non proprio disorganizzato, però insomma non c’era niente di programmato. Loro facevano le cose al loro ritmo e alla loro velocità e per me era grandioso perché ero libero di girovagare, come se non ci fossi. Era il momento in cui il reggae iniziava ad esplodere nel mondo e allora non lo capivo. Solo ora mi rendo conto di quello a cui stavo assistendo.
Poi ho fotografato Lee Scratch Perry, Peter Tosh… Pochi sono ancora vivi…
Come fotografo spesso non capisci subito cosa stai cogliendo. Per quello mi dico sempre di non buttar mai le foto, perché più avanti nel tempo potrebbero avere un significato completamente diverso e magari all’epoca non venivano apprezzate abbastanza.
Ma chi o cos’è più semplice fotografare? Bob Marley, i presidenti degli Stati Uniti, i Giochi Olimpici…
Non so cos’è più semplice, perché è ancora difficile fare foto che significhino qualcosa. L’elemento che rendeva diverso Marley era che non aveva bisogno di circondarsi di segretarie, uffici stampa o altri addetti ai lavori. Oggigiorno se, ti faccio un esempio, vai a fotografare George Clooney, ci sono cinque persone intorno a lui, in abiti da uomo da 5000 dollari!
Tra me e Bob non c’era nessuno che si infilava. Era una cosa molto rara, ma in lui vedevi una persona serena che non doveva mettere barriere attorno a sé. Era un suo lato molto speciale. Lui aveva delle idee ben chiare e poi credeva in certe cose e ci credeva davvero in maniera profonda. Diventava un soggetto molto facile da fotografare perché non c’erano distrazioni intorno.
Ma comunque Bob Marley in un certo senso era un po’ un leader come i presidenti degli Stati Uniti che hai fotografato o no?
Non correva per la carica, ma diventò un leader “spirituale” e quasi politico. Bob era motivato nel fare ciò che riteneva fosse giusto e sicuramente è stato un esempio molto buono.
Dopo l’Exodus Tour lo hai incontrato di nuovo?
No, dopo non l’ho più visto. Nel 1981, sei mesi dopo che morì, mi è stato dato un lavoro per il National Geographic Magazine in Giamaica. Una volta lì, sono andato nel paese dove è seppellito e ho speso un pomeriggio intero. È un posto molto semplice in mezzo ai boschi. All’epoca era così, non so se lo è ancora oggi.
Fu l’ultima vera volta in cui l’ho visto…
Lo scorso 6 febbraio Bob Marley avrebbe compiuto 70 anni. Come te lo immagini oggi?
Bella domanda. Immagino che non sarebbe cambiato molto. Penso che avrebbe continuato a dedicarsi alle sue cose, a come viveva e a ciò in cui credeva. Forse sarebbe cambiata un po’ la sua musica, ma lui stava bene così e non penso che sarebbe cambiato molto. Forse 30 anni dopo i suoi dread sarebbero stati grigi e non neri…
Ma per esempio non te lo immagini come un grande comunicatore nell’era di Internet?
Interessante, ma la sua comunicazione era la musica e la musica è dappertutto… Credo che in qualche modo o avrebbe “abbracciato Internet” o avrebbe trovato un modo nuovo di comunicare quello che volevamo… ma non lo sapremo mai…
Tra i personaggi che non hai mai fotografato, ce n’è qualcuno che ti piacerebbe immortalare attraverso il tuo obiettivo?
Mmm… Mi piacerebbe trascorrere un giorno con Vladimir Putin come ho fatto con Bob… Ho ritratto musicisti, attori, politici, cantanti e alla fine, però, più che l’evento speciale, mi piace stare a stretto contatto con la persona o il personaggio da fotografare, investendo il tempo necessario perché “il mio soggetto si senta in confidenza con me e accetti la mia presenza”.
Cosa farai prossimamente?
Farò un workshop nelle montagne dello Utah dove hanno fatto le Olimpiadi Invernali nel 2002. E poi voglio prendermi una settimana, andare da qualche parte, spegnere il telefono, spegnere il computer, niente mail e avere del tempo solo per me. Ecco… questo mi piacerebbe fare.
Per lui più di 40 anni di esperienza in 80 Paesi, tanti eventi documentati attraverso il suo obiettivo e tanti premi vinti in ambito fotogiornalistico come il “World Press Photo of the Year” e la “Robert Capa Gold Medal” dell’Overseas Press Club. E poi, in un recente numero della rivista “American Photo”, il suo nome è stato inserito tra le “100 personalità più importanti della fotografia”.
Fondatore della nota agenzia fotogiornalistica Contact Press Images, Burnett ha documentato con i suoi scatti diversi eventi storici come il conflitto in Vietnam o la caduta del Muro di Berlino, ma ha assistito anche a importanti manifestazioni sportive come le Olimpiadi dal 1984 ad oggi e ha fotografato i presidenti degli Stati Uniti d’America da Kennedy a Obama.
Ma, come si diceva all’inizio, David Burnett ha raccontato con le sue foto anche la Giamaica, il reggae e soprattutto Bob Marley. La prima volta per Life, la seconda per Rolling Stone.
E adesso le tante immagini nate da quell’incontro sono esposte fino al 19 aprile alla Wall Of Sound Gallery di Alba (Cuneo) (www.wallofsoundgallery.com) nell’ambito della mostra Bob Marley. Soul Rebel.
Giusto il tempo dei convenevoli, sedersi a un tavolo, ordinare un tè e immergersi pacatamente in un viaggio a ritroso per descrivere quei momenti trascorsi con una vera e propria leggenda…
Cosa ricordi del tuo primo incontro nel 1976 con Bob Marley?
Sono volato in Giamaica e forse la cosa più importante è che non sapevo realmente chi fosse Bob e sapevo proprio poco del reggae. Avevo sentito la parola, ma non sapevo di cosa si trattasse. Avevo sentito giusto un po’ Jimmy Cliff…
Avevo trascorso quel pomeriggio con Bob a Kingston ed ero rimasto davvero colpito, nonostante avessimo quasi la stessa età (lui era un anno più vecchio di me). Sembrava un tipo molto saggio e sembrava aver interpretato la vita in una maniera molto semplice e allo stesso tempo sofisticata. Le conversazioni erano sulla musica, sulla politica, sulla giustizia e sulle cose basilari della vita. Era un “figo”, ma era anche intelligente e saggio! Era davvero saggio, sebbene avesse solo 31-32 anni… In confronto a lui, io ero un fotografo e viaggiavo per il mondo, ma non avevo la sua saggezza. Era saggio e questo si capiva dalla sua musica.
Ci sono foto inedite nella mostra?
Sì, la maggior parte. Io sono stato con Bob due volte: la prima a Kingston per un giorno e poi un anno dopo insieme alla band durante l’Exodus Tour per quattro giorni. Non ho trascorso settimane, settimane e settimane con lui. Le foto di Kingston sono state scattate in un giorno e lui era un soggetto eccellente. Non si metteva in posa. Era completamente a suo agio con sé stesso e questo traspare dalle foto.
Bob Marley era famoso per i suoi dread, ma tu per esempio hai fotografato anche le sue mani…
Aveva bellissime mani… Quando sei un fotografo, ti metti lì ad osservare per tutto il tempo e allora guardi gli occhi, le mani… Il fotografo è attirato da qualcosa di simbolico o che possa fornire una rappresentazione simbolica di ciò che si vede. E allora ho fotografato le sue mani perché mi sembrava solo la cosa più naturale da fare. Sono sicuro di non aver pensato alla cosa in sé più di cinque secondi e ho scattato.
Cos’altro ti ricordi dell’Exodus Tour?
Per me la cosa più importante è stata girare in pullman insieme alla band. “Tutti andavano avanti con la loro vita” e non avevano bisogno di posare per me. Tutti facevano quello che avrebbero fatto normalmente ed era come se io non ci fossi. Probabilmente essere testimone di quel momento è stata la cosa più bella. Tutto ciò era grandioso perché oggigiorno è quasi impossibile vivere quel tipo di esperienza così vicina a un artista, un cantante, una celebrità… Per un fotografo è importante semplicemente esserci e per me è stato importante essere lì perché mi interessava solo essere lì.
Com’era la giornata tipo di Bob Marley nei giorni in cui lo hai seguito da vicino?
Per quello che ho visto io, la maggior parte del tempo lo trascorrevamo viaggiando. Poi si arrivava e si guardava il palco che molto spesso era poco adorno, poco chic… anzi… era tutto tranne che chic! Era un grande spazio adatto ad accogliere tante persone. Poi il gruppo faceva il soundcheck e, se tutto era ok e non avevano nient’altro da fare, spuntava subito un pallone e iniziavano a giocare a calcio. Le partite non finivano mai e avrebbero giocato per settimane a calcio. Lui e gli altri membri della band erano fanatici di calcio.
Cosa ricordi invece dei Wailers e degli altri artisti giamaicani che hai fotografato in quel periodo?
Prima di andare a Kingston, ho trascorso qualche giorno con altre band e con Burning Spear e lì son venuti fuori degli ottimi scatti perché era molto… come dire… non proprio disorganizzato, però insomma non c’era niente di programmato. Loro facevano le cose al loro ritmo e alla loro velocità e per me era grandioso perché ero libero di girovagare, come se non ci fossi. Era il momento in cui il reggae iniziava ad esplodere nel mondo e allora non lo capivo. Solo ora mi rendo conto di quello a cui stavo assistendo.
Poi ho fotografato Lee Scratch Perry, Peter Tosh… Pochi sono ancora vivi…
Come fotografo spesso non capisci subito cosa stai cogliendo. Per quello mi dico sempre di non buttar mai le foto, perché più avanti nel tempo potrebbero avere un significato completamente diverso e magari all’epoca non venivano apprezzate abbastanza.
Ma chi o cos’è più semplice fotografare? Bob Marley, i presidenti degli Stati Uniti, i Giochi Olimpici…
Non so cos’è più semplice, perché è ancora difficile fare foto che significhino qualcosa. L’elemento che rendeva diverso Marley era che non aveva bisogno di circondarsi di segretarie, uffici stampa o altri addetti ai lavori. Oggigiorno se, ti faccio un esempio, vai a fotografare George Clooney, ci sono cinque persone intorno a lui, in abiti da uomo da 5000 dollari!
Tra me e Bob non c’era nessuno che si infilava. Era una cosa molto rara, ma in lui vedevi una persona serena che non doveva mettere barriere attorno a sé. Era un suo lato molto speciale. Lui aveva delle idee ben chiare e poi credeva in certe cose e ci credeva davvero in maniera profonda. Diventava un soggetto molto facile da fotografare perché non c’erano distrazioni intorno.
Ma comunque Bob Marley in un certo senso era un po’ un leader come i presidenti degli Stati Uniti che hai fotografato o no?
Non correva per la carica, ma diventò un leader “spirituale” e quasi politico. Bob era motivato nel fare ciò che riteneva fosse giusto e sicuramente è stato un esempio molto buono.
Dopo l’Exodus Tour lo hai incontrato di nuovo?
No, dopo non l’ho più visto. Nel 1981, sei mesi dopo che morì, mi è stato dato un lavoro per il National Geographic Magazine in Giamaica. Una volta lì, sono andato nel paese dove è seppellito e ho speso un pomeriggio intero. È un posto molto semplice in mezzo ai boschi. All’epoca era così, non so se lo è ancora oggi.
Fu l’ultima vera volta in cui l’ho visto…
Lo scorso 6 febbraio Bob Marley avrebbe compiuto 70 anni. Come te lo immagini oggi?
Bella domanda. Immagino che non sarebbe cambiato molto. Penso che avrebbe continuato a dedicarsi alle sue cose, a come viveva e a ciò in cui credeva. Forse sarebbe cambiata un po’ la sua musica, ma lui stava bene così e non penso che sarebbe cambiato molto. Forse 30 anni dopo i suoi dread sarebbero stati grigi e non neri…
Ma per esempio non te lo immagini come un grande comunicatore nell’era di Internet?
Interessante, ma la sua comunicazione era la musica e la musica è dappertutto… Credo che in qualche modo o avrebbe “abbracciato Internet” o avrebbe trovato un modo nuovo di comunicare quello che volevamo… ma non lo sapremo mai…
Tra i personaggi che non hai mai fotografato, ce n’è qualcuno che ti piacerebbe immortalare attraverso il tuo obiettivo?
Mmm… Mi piacerebbe trascorrere un giorno con Vladimir Putin come ho fatto con Bob… Ho ritratto musicisti, attori, politici, cantanti e alla fine, però, più che l’evento speciale, mi piace stare a stretto contatto con la persona o il personaggio da fotografare, investendo il tempo necessario perché “il mio soggetto si senta in confidenza con me e accetti la mia presenza”.
Cosa farai prossimamente?
Farò un workshop nelle montagne dello Utah dove hanno fatto le Olimpiadi Invernali nel 2002. E poi voglio prendermi una settimana, andare da qualche parte, spegnere il telefono, spegnere il computer, niente mail e avere del tempo solo per me. Ecco… questo mi piacerebbe fare.