Ha disegnato il palco dei Pink Floyd di The Wall e lo ha rimodellato trent’anni dopo sulle esigenze di Roger Waters. Per gli AC/DC ha ideato un’enorme locomotiva che usciva dallo schermo e si materializzava sul palco, per i Metallica dei blocchi-luce a forma di bara. Ha portato la platea verticale sul palco degli Stones e piegato uno schermo led da 80 metri per i Genesis. Ha accompagnato l’escalation degli U2 dagli schermi dello Zoo TV all’artiglio del tour a 360°. Si chiamava Mark Fisher ed era l’architetto e stage designer di alcuni fra i maggiori concerti rock degli ultimi vent’anni. È morto nel sonno ieri, a Hampstead, dopo una «lunga e difficile malattia». Aveva 66 anni.
Mark Fisher era il papà del gigantismo rock. È stato uno dei protagonisti dell’escalation dei palchi dalla semplicità degli anni ’70 alle strutture complesse dei giorni nostri. Ha contribuito a trasformare il concerto rock da uno show musicale in un evento spettacolare. Ogni tour doveva essere più grande, colorato, grandioso. Le strutture che disegnava sono cresciute di pari passo con l’ambizione dei musicisti di mettere in scena un kolossal tridimensionale. Megaschermi ed effetti luce non erano più sufficienti a catturare l’attenzione e sorprendere lo spettatore. E così gli spettacoli poggiavano su palchi da centinaia di tonnellate, schermi da mezzo milione di pixel, decine di chilometri di cavi, centinaia di addetti e di tir in giro per il mondo. In questa corsa folle Fisher è stato bravissimo. Il migliore. Ma per il rock è stato un bene o un male?