29/04/2014

Intervista a Fabio Treves

Il Puma di Lambrate ci racconta 40 anni di Treves Blues Band: un lungo viaggio fatto di aneddoti e incontri celebrato sui palchi di tutta Italia con la grinta di sempre
Una piacevole chiacchierata. Tema: il blues. Protagonisti: Fabio Treves e i 40 anni della sua Treves Blues Band.
Il Puma di Lambrate ripercorre la sua vita sul palco a suon di blues grazie ad aneddoti, curiosità, esperienze, concerti e anche incontri, da Renzo Arbore, che per primo lo ha ospitato nelle sue trasmissioni, a Frank Zappa, il quale lo ha invitato per ben due volte a suonare sul palco con lui e lo ha citato nella sua autobiografia.
Dopo gli ultimi live sold out nei teatri, il bluesman continuerà a celebrare 40 anni di Treves Blues Band con i prossimi concerti prima della grande data conclusiva di Milano. E anche in tali occasioni porterà in scena “la musica della vita, che racconta incontri, abbandoni, fantasie, viaggi”. Una musica “mai diventata moda” e che quindi “sarà sempre di moda”. Potere del blues. “BLUES alle masse”. Parola di Fabio Treves.
 
Se il Delta del Mississippi è il luogo in cui nasce e soprattutto vive il blues, come o dove ha scoperto il blues 40 anni fa un ragazzo milanese come Fabio Treves?
Beh, io ho anche suonato nel ’92 a Memphis al Festival del Blues e lì lo vedi il blues. Vedi la strada coi ciotoli, un fiume che sembra il mare, alberi secolari. Chiudi gli occhi e ti sembra di essere in un film. E io spesso ci ho giocato su questa cosa: il Lambro come il Mississippi… cioè nelle fantasie di un ragazzo di 15-16 anni c’era chi sognava la California e c’era chi come me sognava altro, partendo dalla passione per questa musica che all’inizio ti sembra strana, ti sembra ripetitiva. Non è retorica, non è un modo per definire qualcosa, però effettivamente nel ’65, da un periodo di beat – con gruppi che spesso venivano dall’Inghilterra e proponevano musica di radice nera riarrangiata – feci il viaggio a ritroso. Lo hanno fatto gli inglesi, i tedeschi e anche gli italiani. E avendo in mente il Mississippi, le leggende o i grandi racconti mi sono appassionato e poi ho capito che il blues non è solo musica, ma è uno stile di vita, uno stato mentale, qualcosa che va oltre. Io spesso ho avuto la fortuna di andare in posti stupendi dell’Italia del sud, tipo nella provincia di Lecce, e ho trovato ragazzi che suonavano blues e lo facevano perché presi dalla passione, com’era ed è ancora per me. Ragazzi prima dei concerti della Treves Blues Band erano fuori a suonare blues. È vero che il Mississippi racchiude queste buone vibrazioni, ma il blues ormai è diventato un linguaggio o un codice comportamentale senza fare tanti giri di parole…
 
Quando hai iniziato era difficile fare blues in Italia?
Sì e la cosa più incredibile è cercare di farlo capire ai giovani d’oggi. È difficile far capire cos’era l’Italia, perché c’era la tv ma non trasmetteva un certo tipo di musica, non c’erano riviste musicali se non Ciao 2001 e basta, non c’erano negozi specializzati perché per comprare uno spartito di blues dovevi fartelo spedire dall’Inghilterra e poi era impossibile trovare la teca nei negozi con il genere blues perché ti chiedevano “Cosa fate, jazz?” “No, blues…” “Ah beh, blues/jazz è la stessa cosa…”.
Quindi è stato un percorso difficile, arduo, in salita… e i 40 anni di Treves Blues Band per me sono un grande traguardo e sono felice di averlo raggiunto dopo tutta la gavetta e i sacrifici. Ho fatto tutto da solo, anche se sicuramente devo tanto a Renzo Arbore.
Lui seppe di questo ragazzo a Milano che faceva blues e aveva fatto dischi blues e mi invitò nelle sue trasmissioni, L’altra domenica, Quelli della notte e DOC. L’amicizia con lui va avanti ancora adesso.
Erano tempi pionieristici. Nel ’74 partire nelle piazze per suonare blues era una cosa che potevano fare solo dei pazzi. Sarebbe stato molto facile cadere nella depressione, ma io sono sempre andato avanti suonando ovunque ci fosse bisogno di qualcuno in grado di scaldare subito la gente.
 
In 40 anni non c’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare?
Mai, mai, mai. Questi sono 40 anni di Treves Blues Band, ma io, se leggi le mie biografie, il blues lo suonavo già da prima quando andavo al Liceo Classico e c’erano i contest tra i vari gruppi. Mi ritrovavo “contro” Stormy Six, Eugenio Finardi o il povero Claudio Rocchi e io col mio gruppo partecipavo e non vincevo mai, perché facevo brani di sette minuti sempre sullo stesso accordo. Però ho tenuto duro anche quando la gente mi diceva “dai Fabio, lascia stare” perché avevo la passione.
 
Prima parlavi dell’incontro con Renzo Arbore, ma di incontri in carriera ne hai fatti tantissimi. Qual è stato il più importante?
Avevo provato a suonare altro prima dell’armonica, ma con scarso successo e quindi il primo “incontro” importante fu con gli Who a Milano che erano tra i miei preferiti perché erano ruvidi, grintosi, senza tanti fronzoli. Prima di loro suonavano i Primitives che erano un gruppo inglese in cui c’era il cantante, Mal, che suonava l’armonica. E da quel momento rimasi folgorato. Da allora iniziai a interessarmi allo strumento e alle diverse armoniche, nel ’75 o nel ’76 arrivò questa piccola parte di pochissime battute nel disco di Mina e poi alcune battute nel disco di quello o di quell’altro e sono tanti i nomi di italiani a cui ho prestato la mia armonica. Finardi, Celentano, Branduardi, Elio, Baccini, Giorgio Conte, Articolo 31
Poi per i live ho avuto altri tipi di incontri e quello che mi rende più orgoglioso è avvenuto con Frank Zappa, che mi ha chiamato per ben due volte sul palco, nonostante fosse famoso perché non invitava mai nessuno a suonare insieme a lui. Essere citato nella sua autobiografia ufficiale è un altro motivo di grande soddisfazione per me.
Tanti altri incontri sono stati importanti come quello con Mike Bloomfield, personaggio “ricco di negritudine”, pur essendo bianco. “Il chitarrista bianco più nero del blues” fu definito da qualcuno che non ricordo. Aiutò molti bluesman che vivevano di stenti ad andare avanti e tutto ciò ha aiutato ad andare avanti anche a me, facendo blues e capendo che il blues è proprio uno stile di vita, un modo di vivere tra le persone.
 
A quale tipo di blues sei più legato?
I primi dischi di blues li ho ascoltati a casa mia, perché mio padre era un intenditore di buona musica. Ho iniziato col jazz di Charlie Parker, poi con il blues di Sonny Terry e Brownie McGhee o con la musica classica o la musica dei balcani. Il blues che per primo mi ha fatto sognare è stato quello acustico di Leadbelly, Robert Johnson, Sonny Terry, Brownie McGhee o Blind Lemon Jefferson.
Poi col tempo mi sono avvicinato ad altri tipi di blues. I miei miti e quindi gli armonicisti che più mi hanno fatto sognare sono due: Paul Butterfield e Charlie Musselwhite e non a caso sono i due armonicisti bianchi che penso abbiano lasciato il segno più di altri. Poi quando sento Little Walter o Sugar Blue
 
All’inizio dicevi di quando hai suonato a Memphis nel ’92. Come hanno percepito lì il fatto di ascoltare “un italiano che faceva la loro musica”?
Fortunatamente esistono registrazioni audio e video. Ci facevano i complimenti, perché pur venendo da “Milano, Italy”, la cosa era piaciuta. Li avevamo fatti ballare e avevano capito la nostra passione.
Questo contrasta con ciò che dicevano all’epoca. Qualcuno scriveva addirittura “il blues bianco non esiste” e io dicevo “ma perché dovete scrivere certe cose?”… Johnny Winter suonava con Muddy Waters, gli Animals suonavano con Sonny Boy Williamson… perché dicevano queste cose? Perché volevano tenere il blues relegato in quell’angolino come una musica ripetitiva per i pezzenti, per gli emarginati, per i “negri” e invece il blues in America è musica popolare, così come lo è diventata per fortuna anche in Italia, perché esistono molte più rassegne di blues in Italia e non rassegne di jazz, di reggae e rock’n’roll e poi perché esistono tantissimi locali che programmano blues e non altra musica.
Ecco perché i 40 anni di Treves Blues Band mi riempiono di orgoglio e di felicità, anche per la possibilità di diffondere il blues in ogni regione italiana. Non esiste regione d’Italia dove non abbia suonato. Attualmente ho una band che mi segue sempre ovunque e ho conosciuto amici straordinari dalla Valtellina a Morciano di Leuca, provincia di Lecce. A volte ci penso: cosa vorrei fare di più?
 
Beh, ma c’è qualche artista che avresti voluto incontrare o con cui avresti voluto suonare?
Sì, certo, ho due-tre sogni nel cassetto come tutti. Mi piacerebbe salire sul palco della mia città e fare tre note con Springsteen. E mi fermo qui.
Se ho suonato con Chuck Leavell, l’anima degli Allman Brothers Band degli anni ’70 che ora fa i tour mondiali con i Rolling Stones, ho realizzato un altro sogno. Se vai sul suo sito a un certo punto leggi Fabio Treves e ovviamente per me è un motivo di grande soddisfazione, così come penso lo sia per lui altrimenti non mi avrebbe citato.
 
Invece, sempre a proposito di incontri: tu, Fabio Treves/Puma di Lambrate, non hai mai incontrato John Mayall/Leone di Manchester? O meglio: non hai mai suonato sul palco con lui, vero?
No, però mai dire mai. Mayall ha suonato con tantissima gente e con me non è capitato, ma non ho mai premuto per farlo. Potrebbe essere un altro bel momento da aggiungere alla mia carriera, anche perché lui intende il blues come musica che accomuna e non divide.
 
Il blues poi è pur sempre una musica di matrice popolare, ma che rapporto hai con i vari tipi di musica popolare italiana?
A me piace qualsiasi tipo di buona musica. Per me la musica popolare italiana è bellissima ed è fonte anche di sogno. Il fatto che ci siano così tanti stili diversi o strumenti tipici diversi in ogni regione è un’altra cosa affascinante e si ricollega comunque al discorso degli States, visto che anche lì non c’è solo il blues, ma c’è anche il cajun, lo zydeco ecc.
Comunque ho un rapporto bellissimo, anche se poi ho sempre amato il blues e all’inizio della mia carriera il periodo era quello del jazz d’avanguardia, dei canzonieri, del cantautorato politico o del progressive rock e quindi sono stato abbastanza penalizzato perché mi sono voluto mettere in un filone che nessuno conosceva e soprattutto che non c’era. Non potevi dire “l’ho sentita lì”. C’era il vuoto. Qualche anno dopo, quando uscì The Blues Brothers, mi identificai subito in quel film e anche la gente iniziò a conoscere maggiormente quella musica.
 
In questi 40 anni hai scoperto anche modi nuovi di suonare il blues?
Sì, anche con strumenti nuovi. Il mio chitarrista e il mio batterista ad esempio hanno costruito due strumenti. Uno da una confezione per la torta sacher e un altro da un mestolo per polenta con pick-up, corde ecc. Ora fanno questo pezzo in due proprio per testimoniare che il blues è una musica che nasce povera di strumenti e non di contenuti. Il blues è sempre in continua evoluzione e non è mai diventato di moda, per cui sarà sempre di moda. E poi è la musica della vita, che racconta incontri, abbandoni, fantasie, viaggi…
 
In tutta la tua carriera ti sei sforzato più di raccontare il blues nelle sue varie sfaccettature o hai cercato anche di dargli un tuo tocco personale o, laddove possibile, di rinnovarlo?
A costo di sembrare un cialtrone, non ho mai pensato attraverso il testo di arrivare a dimostrare niente, ma attraverso l’esecuzione, tant’è che la mia dimensione è quella live. Mi sarebbe piaciuto raccontare il mio rapporto d’amicizia con tanti bluesman italiani, mi sarebbe piaciuto attraverso i testi parlare dell’ILVA di Taranto, dei giovani che non trovano lavoro ecc. Però se veramente avessi voluto certe cose l’avrei fatto, ma mi è sempre sembrata una forzatura. Per quello mi sono concentrato sempre sull’esecuzione.
Poi comunque io trasmetto il messaggio, facendo la prima parte, suonando e facendoti capire che il blues è coinvolgente. Il resto viene dopo e quindi oggi con Internet ti puoi cercare il blues e scoprire quale blues ti piace di più. E magari noti che preferisci Bessie Smith, Bonnie Raitt, Billie Holiday, Aretha Franklin…
 
Quali sono per te gli artisti che oggi portano avanti il discorso del blues?
Ben Harper, B. B. King, Eric Clapton… In Italia ci sono molti amici come Guitar Ray, Paolo Bonfanti e molti altri. L’elenco è lungo, ma ci sono comunque vari tipi di blues, perché il blues stesso per me esprime il concetto di libertà. Il blues per me significa quello e quindi può essere elettrico estremo, con le voci filtrate che strizzano l’occhio al rap, con l’asse da lavare e l’armonica… E il rhythm’n’blues o il soul non sono blues? Qualcuno poi mi chiede: “Ma della prima formazione della Treves Blues Band chi è rimasto? Solo Treves?” “Certo”, perché comunque ci ho creduto dall’inizio e non ho mai smesso di crederci…
 
Però ci sono comunque alcuni elementi del gruppo che suonano con te da molto tempo…
Sì. Il batterista Massimo Serra c’è dal ’92, mentre Ale “Kid” Gariazzo ha iniziato nel ’94 quando aveva vent’anni…
 
Con loro hai già tenuto diversi concerti per celebrare i 40 anni di Treves Blues Band, ma sono previste a breve altre date, vero?
Certo. Il 1° maggio saremo a Piacenza in piazza e poi il 10 ed il 17 maggio nei teatri di Crema e Rivoli (per altre informazioni cliccare qui, ndr). Dopo ci saranno date estive all’aperto e poi abbiamo deciso che l’ultima data la faremo a Milano, città che amo perché è quella in cui sono nato e cresciuto.
 

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