29/05/2024
“Io, Elvis”: una nuova biografia Diarkos
La storia del re del rock nel nuovo libro di Paolo Borgognone
Freddie Mercury, Beatles, Martin Luther King ed Elvis Presley. Quattro simboli del Novecento, quattro figure che ogni scrittore vorrebbe affrontare e raccontare, ma che vista la loro importanza sono anche difficili, sfuggenti. Per Diarkos se ne è occupato Paolo Borgognone, stimato biografo che sta lavorando a questi approfonditi “medaglioni” per la casa editrice emiliana. Stavolta parliamo con lui di Io, Elvis. La storia immortale del Re del Rock. Una biografia che attraversa clamori e cadute, trionfi e abissi, inevitabili per un protagonista del XX Secolo.
Abbiamo recentemente parlato con te dei Beatles, ora affrontiamo Elvis. Due fenomeni della cultura popolare del Novecento, due entità che hanno travalicato la musica per diventare immortali. In cosa è diverso il mito di Elvis rispetto ai Beatles?
Un critico musicale, qualche anno fa, paragonò l’avvento sulla scena musicale dei quattro di Liverpool alla comparsa della vita sulla terra. Da lì avrebbero poi preso la propria strada i differenti generi, gusti, mode. Lo stesso autore diceva che, in questo senso, Elvis era paragonabile al Big Bang. L’esplosione del fenomeno Presley è stato l’atto primigenio, la scintilla che ha fatto sì che ci fosse l’evoluzione successiva. Ha permesso tutto il resto. Ed è un raggiungimento straordinario, proprio perché ha creato qualcosa che prima non esisteva. Lo ha fatto, aggiungerei, tutto da solo. Non aveva alle spalle la forza della coesione di un gruppo, ma ha affrontato ogni cosa contando esclusivamente su sé stesso.
Se parliamo di rock ‘n’ roll non possiamo non citare Chuck Berry, Little Richard e Jerry Lee Lewis. Ma Elvis cosa aveva in più rispetto ai suoi colleghi degli anni ’50?
Quello che colpisce studiando il fenomeno Presley è sicuramente la velocità con la quale è diventato una stella e la potenza del suo messaggio, anche al di là del solo panorama musicale. Quanto al primo aspetto, ricordiamo che dall’uscita del 45 giri di debutto, nel luglio del 1954, quasi esattamente 70 anni fa, sono passati di fatto pochissimi mesi prima che il successo trasformasse quel ragazzo un po’ timido del sud degli Usa in una star straordinaria. L’impatto che la sua musica, ma anche l’aspetto fisico e il modo di stare sul palco, ebbero fu altrettanto fragoroso. I musicisti che hai citato sono stati dei grandissimi, hanno sicuramente segnato un’epoca, ma Presley ha sfondato ogni quarta parete si sia trovato davanti e ha lasciato sul mondo intero un’impronta indelebile.
Ogni figura della storia del rock è legata a un luogo, da Liverpool a New York, da San Francisco a New Orleans. Per Elvis dobbiamo parlare di Memphis: quanto è stata importante per lo sviluppo e l’affermazione del personaggio?
Per comprendere un artista è sempre necessario risalire alle radici, alla formazione che ha ricevuto. Questo discorso vale ovviamente anche per Presley. La sua infanzia la trascorse a Tupelo, Mississippi, poi l’adolescenza e la vita adulta nel Tennessee. Parliamo, quindi, del sud degli Usa in un periodo storico nel quale, per esempio, la segregazione razziale era un tema scottante, veramente drammatico. E riguardava tutti. Tra gli altri, Elvis ha avuto il merito di “sdoganare” il blues, il gospel che erano generi di solito riservati al pubblico afroamericano e di metterli, letteralmente, alla portata di tutti. Il suo è stato certo un contributo importante alla lotta per l’integrazione, pur con tutte le difficoltà che un artista dell’epoca poteva incontrare nello svolgere un simile compito. Non a caso, in un passaggio della biografia, lo definisco “troppo bianco per i neri, troppo nero per i bianchi”.
Non si può non menzionare il controverso colonnello Parker. Da storico del rock, come hai inquadrato il manager di Elvis?
Il colonnello è stato fondamentale nella realizzazione del sogno di Elvis di avere successo. Perché era un tipo astuto, uno che sapeva ragionare fuori dagli schemi. Non a caso, sottolineo nel testo che “non metteva mai la cravatta”. Non è una considerazione estetica, ma volevo indicare come Parker, o qualunque fosse il suo vero nome, non era legato ai cliché fino a quel momento applicati all’industria musicale. Anche grazie a questo, Presley è diventato il fenomeno che tutti conoscono e di cui si parla ancora a 47 anni dalla morte. C’era, poi, un altro aspetto, meno nobile se vogliamo. L’opposizione a far esibire l’artista all’estero, una forma di sfruttamento parossistico della sua immagine. Va considerato anche questo per inquadrare il personaggio. È importante, però, mantenere sempre l’equilibrio e non andare sempre e per forza alla ricerca di un “colpevole”. Che sia Parker o Yoko Ono…
Heartbreak Hotel, Hound Dog, Jailhouse Rock e potrei continuare a oltranza… Sono le fondamenta della cultura rock, ma anche di quella afroamericana. Che rapporto aveva Elvis con la musica di chi lo aveva preceduto?
Fin da piccolo, con la sua famiglia, Elvis cantava il gospel. Che non è un patrimonio esclusivo degli afroamericani, ovviamente, ma appartiene senza dubbio specificatamente alla loro realtà. Così come il blues, di cui Presley era appassionato. Ma lo era anche del rock o del country. Ricordiamoci che nel suo primo 45 giri c’era una canzone bluegrass. Insomma, le radici erano molto profonde e variegate. E sono radici che non sono mai state rinnegate, anzi. Quando tornerà sulle scene strettamente musicali, dopo il lungo interregno cinematografico, Elvis lo farà recuperando proprio quelle basi senza lo quali, lo diceva lui stesso, non avrebbe potuto arrivare dove è arrivato. Presley ha sempre ricordato quanto dovesse a chi era arrivato lì prima di lui. Una modestia che è, secondo me, un altro aspetto della sua grandezza.
L’avvento dei gruppi e la risposta europea decretano la fine di quella prima generazione, Elvis accusò il colpo?
Certo che sì. D’altronde, il mondo nel 1968 – anno in cui realizzò il ritorno sulle scene – era cambiato di un bel po’ rispetto agli esordi nel 1954. Pensiamo a tutta la storia che era passata in mezzo a queste due date: il movimento per i diritti civili, l’assassinio del presidente Kennedy, quello di Malcolm X, del Reverendo King, l’aggravarsi della situazione in Indocina, il pacifismo. Potremmo continuare per un pezzo. Anche la musica aveva risentito di questa atmosfera, anzi, per certi versi aveva contribuito a crearla. Ed erano apparsi fenomeni totalmente nuovi: basti pensare alla Brit Invasion, seguita al clamoroso successo oltre oceano dei Beatles. Quindi serviva un Elvis diverso per tornare sulle scene. La sua capacità interpretativa, il glamour che suscitava la sola presenza sul palco del “Re” erano immutate, ma il resto aveva preso direzioni e assunto forme nuove e tutte da interpretare.
Elvis e il cinema, attore in pellicole che fanno sorridere oggi – forse anche all’epoca… – ma che a loro modo sono un importante documento storico, non trovi?
Recitare è sempre stato il suo sogno. Elvis amava il cinema, quando era ancora un ragazzo qualunque squattrinato che per aiutare la famiglia guidava camion, spendeva i pochi risparmi per andare a vedere i film sul grande schermo. Per questo accettò con entusiasmo di iniziare una carriera nella settima arte. Purtroppo, quel mondo ha le sue leggi e il profitto, di solito, è la più importante. Per questo si ritrovò a fare da protagonista in film di poco o scarsissimo valore che si basavano esclusivamente sul fatto che ci fosse… lui. Solo alcuni gli piacquero, ma in realtà gli rimase per tutta la vita la frustrazione di non essere stato considerato un attore “vero”. In compenso, i profitti sono stati notevoli. Presley fu fra i primi a ricevere un cachet superiore al milione di dollari per un film.
È difficile pensare ai suoi eredi, molto più agevole menzionare grandi come Dylan, Lennon, Springsteen, che citi in quarta, che non avrebbero mai fatto musica se non avessero mai visto Elvis. Perché è stato così determinante per i musicisti dell’epoca?
Elvis ha tracciato la via. Chi è venuto dopo, fra cui quelli che tu hai nominato, hanno sempre confermato la sua importanza come “apripista”. Lennon, tanto per fare un esempio, disse che era stato Elvis a “portarlo fuori da Liverpool”. Possiamo considerare che Presley sia stato senza dubbio la prima “rockstar”, nel senso più pieno e moderno del termine. Con gli alti e i bassi che questo comporta. Come ricorda Bruce Springsteen – e lo cito alla fine del libro – “tutto inizia e finisce con Elvis”. E se lo dice il Boss…
Vorrei chiudere con le ombre. Quando le luci sono così forti, inevitabilmente ci sono tante ombre. Secondo te quali sono stati i suoi lati più oscuri, che magari meritano anche ulteriori studi?
È giusto parlare anche degli aspetti meno nobili di un personaggio, ma questo non deve mai mettere in secondo piano le sue qualità e il lascito per chi è venuto dopo. Fatta chiarezza su questo, è evidente che la dipendenza dalle pillole – eccitanti, calmanti – ha rappresentato un rovescio della medaglia rispetto a tutte le grandi qualità umane e artistiche che la biografia di Elvis cerca di illustrare. E ha contribuito a un’uscita di scena così repentina e anticipata. Anche i lati meno nobili del carattere di una persona – e li abbiamo proprio tutti – sono soltanto delle sfaccettature che contribuiscono a rafforzare l’immagine complessiva del personaggio e, pur essendo in casi come questo autodistruttive, rafforzano la creazione del mito. Che è, in questo caso, ancora enorme.