30/10/2013

Rolling Stones, Tour Of The Americas

Estate 1975, i Rolling Stones prendono d’assalto gli Stati Uniti. È anche la prima tournée con Ron Wood, alimentata a cocaina, e introduce un nuovo livello di spettacolarizzazione

Non doveva essere facile gestire la più famosa rock’n’roll band del mondo nel 1975. Eccessi, divismo e la volontà di dimostrare al mondo che i Rolling Stones erano ancora i più forti a discapito di tutto e di tutti, anche senza Mick Taylor: di questo e molto altro si parlava negli uffici della Rolling Stones Records nei primi mesi dell’anno. It’s Only Rock’n’Roll era il primo disco da molto tempo a quella parte a non arrivare in cima alla classifica inglese, ma l’America sembrava ancora amare gli Stones. Il «tour delle Americhe» dell’estate del 1975 era il miglior modo per dimostrare lo stato di salute della band in un Paese che ancora aveva voglia di rock e in cui le nubi della controrivoluzione sembravano lontane: 46 date in poco meno di 70 giorni tra giugno e agosto con tappe forzate a New York (sei concerti al Madison Square Garden) e Los Angeles (cinque al Forum). La band voleva rispondere al tour invernale dei Led Zeppelin tenutosi tra gennaio e marzo dello stesso anno e che era stato un successo. Ronnie Wood era stato assunto come rimpiazzo temporaneo dal 14 aprile (diventerà membro ufficiale solo il 19 dicembre dello stesso anno) e il 1° giugno festeggiò il ventottesimo compleanno all’LSU Assembly Center di Baton Rouge, Louisiana, davanti a 15 mila fan.

Fu indetta una conferenza stampa per il 1° maggio per presentare il tour al 5th Avenue Hotel di New York tra la Quinta e la Nona Strada. Con somma sorpresa degli addetti ai lavori e per la gioia degli ignari passanti, gli Stones si presentarono all’hotel a bordo di un camion a rimorchio con i loro strumenti e amplificatori, e suonarono una lunga versione di Brown Sugar. Un’idea di Charlie Watts per la quale avrebbe dovuto chiedere il brevetto visto che sarà ripresa da molte altre band, basta pensare agli AC/DC e al video di It’s A Long Way To The Top. Wood di quel giorno ricorda: «New York City, ore 9 precise del mattino. Eccoci lì che percorriamo la 5th Avenue. Vidi Shep Gordon, il manager di Alice Cooper, che andava in giro con la sua cartella, mentre noi pestavamo sugli strumenti: i Rolling Stones e Billy Preston su un camion! Eccomi nella mia divisa della band, una giacca del cazzo fatta con la pelle di una specie in via d’estinzione. Io che lotto in difesa delle specie in via d’estinzione mi ritrovavo con addosso una giacca di pelle di gazzella. Mia figlia mi tormenta ancora per quella giacca!».

«Avevo già suonato con Ronnie a intermittenza, come attività secondaria, per un paio d’anni e dicevo sempre che era un peccato non poterlo fare negli Stones», scrive Keith Richards nell’autobiografia Life. «Suonare con Ronnie è un gran divertimento mentre con Mick Taylor non era certo uno spasso; non suonavo come avrei voluto. Mi sembrava di ritornare sempre più verso la vecchia formula, quella separazione tra chitarra solista e chitarra ritmica che non faceva per me. Mi è sempre interessata di più “l’antica arte dell’intreccio”, come la chiamiamo io e Ronnie. E Ronnie sa perfettamente come farlo». Che Richards avesse trovato il suo chitarrista “gemello” è indubbio. Il loro viaggio in auto da Memphis a Dallas per la prima data ufficiale del tour – Baton Rouge era stato un concero di riscaldamento – con fermata al ristorante 4-Dice di Fordyce è una perfetta sceneggiatura per film come Una notte da leoni. «Nei Faces ero l’unico chitarrista. Facevo la parte ritmica e la solista e in più ero anche il leader del gruppo: davo gli attacchi e le chiuse. Perciò è stato decisamente un sollievo per me diventare il secondo in grado nel decidere le chiuse. È Keith che, in questa band, decide i cambi musicali. In un certo senso, più che un lavoro è quasi una pacchia». Ogni dettaglio del tour non era lasciato al caso. La cosa colpisce il nuovo arrivato: «Fui impressionato dalla loro capacità organizzativa: la lista dei brani del concerto e il programma della giornata che ti venivano passati sotto la porta della tua stanza d’albergo. Venivi informato su tutto: che ci sarebbe stata una band di supporto e una cassa di champagne nel retro palco. Non ci ero abituato. Gli Stones si sono sempre presentati con una vera struttura. Mi piace».

Ordine e caos regnano nella famiglia e il palco è il luogo in cui questi elementi si scontrano, fondendosi. Keith è in balia delle droghe, ma dal vivo guida la band con sicurezza lungo i 27 brani che compongono la scaletta. È di quel periodo la sua affermazione: «Non vado in cerca di guai. Sono loro a trovarmi», così come il diffondersi delle leggende che vada a farsi “lavare” il sangue in Svizzera e che abbia due fegati. Di vero c’è che il nostro, insieme a Ronnie, ha sempre a disposizione delle strisce di cocaina dietro gli amplificatori. Lo show è lungo e articolato, con una selezione di brani che si concentra prevalentemente sui dischi dal 1969 in poi, fortemente dominato dal blues e scandito da tre momenti di improvvisazione: la sognante You Can’t Always Get What You Want, la fisica Midnight Rambler e il baccanale rock di Sympathy For The Devil che chiude il concerto. «In quel periodo» ha detto Mick Jagger «il rock da grande arena era diventato un’industria, e non solo per noi. Non sono un grande storico del business del rock, ma credo che solo i Pink Floyd abbiano affrontato questo aspetto nello stesso momento. Ingaggiammo Jules Fischer come direttore delle luci che sostituì Chip Monck con il quale lavoravamo dal 1969. Fu Chip nel 1972 a creare per noi un set che prevedeva l’uso di specchi per far rimbalzare le luci. Fu Chip il primo ad avere l’idea di impacchettare tutta la roba e portarla in giro su un camion. Fa sorridere oggi, ma nessuno l’aveva fatto prima di allora». Fino a quel momento la parola “produzione” non veniva associata a un concerto rock: i Rolling Stones sono tra i primi ad intuire l’importanza di questo aspetto. «Prima di allora» continua Jagger «non esisteva una vera a propria industria legata alle tournée rock. Per questo abbiamo dovuto ingaggiare persone che lavoravano da altre parti: da Holiday On Ice per esempio prendemmo gli allestitori, perché negli show itineranti tutto doveva essere montato e rimontato. Prendemmo anche persone che avevano lavorato ai parchi della Disney. Jules aveva lavorato a Broadway e aggiunse un sacco di arredi scenici come teli dipinti ed estensioni al palco». C’era il “vecchio nonno” – così veniva chiamato l’enorme pallone a forma di pene che si ergeva, non sempre però, durante Star Star – «e avevamo due palchi a forma di fior di loto, uno dei quali aveva una grande apertura che si serviva di un sipario “veneziano”, come lo chiamavamo noi, un sipario cilindrico. Nelle arene più grandi, i petali del loto rimanevano ripiegati e, all’inizio dello show, il palco era totalmente ricoperto da una specie di rivestimento di garza. Io dovevo entrare nel fior di loto, salire la scaletta e rimanere aggrappato come potevo a uno dei petali che, in seguito, si apriva mostrando la band in azione».

Dopo quel trionfale tour, gli Stones terminarono le registrazioni di Black And Blue. Da quelle 46 date solo Fingerprint File, It’s Only Rock’n’Roll e Sympathy For The Devil, tratte rispettivamente le prime due dallo show di Toronto del 17 giugno e da quello di Los Angeles del 9 luglio, trovarono spazio su Love You Live nel 1977. Oggi la registrazione del concerto di Los Angeles è disponibile in download sul sito www.stonesarchive.com. L.A. Friday (Live 1975) è il miglior modo per perdersi nella magia degli ultimi fuochi del rock’n’roll.

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